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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Jon RAFMAN                                                                                        (Canada) 

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JON RAFMAN

 

 

Spesso ci si chiede se il solo atto del fotografare sia capace di modificare la realtà nel modo in cui la percepiamo. Non solo. Ci chiediamo con ancora più determinazione se i soggetti posti di fronte un obiettivo stabiliscano con esso – e con il fotografo – un’alterazione, una specie di campo neutro nel quale incontrarsi e in cui seppellire la propria naturalezza. E questo al netto delle implicazioni morali che un fotografo può sviluppare nello svolgimento del suo lavoro. La “street photography” ha per un certo tempo risposto al desiderio di “neutralità”, a una rappresentazione senza filtri della realtà ma, una volta esaurita la missione “eversiva” contro l’attimo decisivo, ha finito per crearne di nuovi a sua volta. E’ il linguaggio che si istituzionalizza. Malgrado sia esperito ogni tentativo di crearne di nuovi. Nella storia delle arti visive ci sono stati momenti di rottura che hanno inciso profondamente sulla percezione o sulla definizione di arte. Valga per tutti l’esempio di Duchamp, che con suoi “ready made” ha messo in discussione la stessa natura dell’arte. E non c’è dubbio che il Web abbia contribuito profondamente a sparigliare le carte infiammando il dibattito, seppure con qualche pericolo di banalizzazione dovuto a una stragrande quantità d’immagini che obbliga l’utente a districarsi con difficoltà da cosa ha un valore estetico riconoscibile da quello che non lo ha affatto. Ma la Rete mantiene un indiscusso potere, fagocita tutto, accoglie tutto: la Rete non ha alcuna remora di carattere morale e dunque, a guardare bene, è in grado di riflettere quella realtà “senza filtro” di cui si faceva cenno in apertura. A dimostrarlo è “9 Eyes”, lo strepitoso lavoro (2012) del fotografo e artista multimediale canadese Jon Rafman. “9 Eyes” prende il nome dalle telecamere multifocali montate sulle autovetture di Google Street Views, grazie alle quali noi tutti possiamo attraversare le strade di ogni località del pianeta senza muoverci da casa. E nemmeno un passo ha fatto lo stesso Rafman. Il suo è stato un lungo processo di ricerca, durato anni e durante i quali ha scorso diverse decine di migliaia di immagini.

Subito due considerazioni. La prima attiene a un capitolo di “proprietà autoriale” che, a giudicare dai numerosi artisti multimediali che attingono alle immagini della Rete per crearne di nuove e personali, non sembra rappresentare un problema ma che invece si impone come un’efficace punto di congiuntura tra linguaggi. La materia grezza delle immagini amatoriali – che proprio per la loro “naivité” evocano una certa dignità – è convogliata nella creatività degli artisti e qui ribaltata fino all’assunzione dello status artistico. Ne consegue che il “proprietario” è chi ha saputo affidare all’immane materiale della Rete un linguaggio autonomo. 

La seconda considerazione è di carattere squisitamente fotografico, attinente alla sua grammatica visiva e con cui Rafman ha necessariamente dovuto confrontarsi risalendo all’originalità del materiale. Come certamente avrete notato dalle immagini di Google Street Views è assente qualsivoglia riferimento che possa urtare la legislazione a tutela della privacy delle persone. Il risultato sono città “sterilizzate” dalla presenza umana, le cui strade sono fatte per essere attraversate, per condurci rapidamente e in modo sicuro da un capo all’altro dell’agglomerato. In “9 Eyes” c’è tutto questo (anche qui i volti delle persone riconoscibili sono stati offuscati) ma c’è molto di più. E quel di più è tutto quello che non si deve mostrare su Google Street Views. E qui veniamo al punto di partenza, a quelle immagini di una realtà “senza filtro”, che nelle fotografie selezionate da Rafman è del tutto assente. Questa è fotografia di strada nuda e cruda, tanto più spietata perché le nove telecamere di Google non hanno nessuna vocazione a spiare; ed è nell’assenza di questa attitudine che ci viene restituita una realtà priva di mediazioni. 

“9 Eyes” ci conduce al centro delle strade. Osservando le immagini siamo testimoni alle prese con la vita vera, con quella imprevedibile quanto vasta casualità da supporre che la tradizionale “street photography” abbia in qualche modo voluto espurgare dalla sua filosofia gli aspetti più crudi, più autenticamente “stradaioli” che in qualche modo avessero il potere di inficiare la sua grammatica visiva.

Quello che vediamo in “9 Eyes” è quanto succede qui e ora. E’ cronaca autoreferenziale. E’ un racconto che non tiene conto di nulla se non di se stesso e dunque per questo strettamente legata alla fonte di provenienza: Internet. Jon Rafman ci invita all’esplorazione delle potenzialità del Web, alla sua inesauribile capacità di incamerare immagini, pronte, qualora se ne abbia l’intenzione, per il nostro approviggionamento.

In ogni fotografia riscontriamo “L’epica della normalità”, per cui un alce che corre su una strada norvegese appare come un’epifania, al pari d’altre in cui le stranezze dell’uomo appaiono grottesche e inverosimili ma reali. E proprio queste, le persone colte nella loro quotidianità, ci forniscono attraverso le loro reazioni un campionario delle sensibilità umane; perché non tutti colti di sorpresa dall’occhio neutro di Google Street Views hanno il piacere d’essere immortalati. Ma questo è uno specchio vuoto: un’immagine racconta molto più di ciò che siamo e dunque, una volta “scoperti”, è per questo che taluni soggetti reagiscono con veemenza.

“9 Eyes” è dunque da considerarsi un reportage a tutti gli effetti, forse il più crudo e veritiero degli ultimi tempi. Nella forma piana delle sue immagini di partenza (la bussola direzionale in alto a sinistra, è un totem identificativo), dal tentativo della mappatura della viabilità mondiale, emerge una nuova e profonda lettura del sociale e in cui Jon Rafman ha versato nuovi significati. Che ora si estendono al linguaggio fotografico.

Giuseppe Cicozzetti

da “9 Eyes”

foto Jon Rafman

http://jonrafman.com/  

 

 

We often wonder if the only act of photographing is capable of changing reality in the way we perceive it. Not only. We ask ourselves with even more determination if the subjects confronted with a lens establish with it - and with the photographer, as well - an alteration, a kind of neutral field in which to meet and in which to bury their naturalness. And this devoid of moral implications that a photographer can develop in the performance of his work.

The "street photography" has for some time responded to the desire for "neutrality", to a representation without filters of reality but, once the "subversive" mission has been exhausted against the decisive moment, it has ended up creating new ones in turn.

It is the language that institutionalized itself. Although every attempt is made to create new ones. In the history of the visual arts there were moments of rupture that deeply affected the perception or definition of art.

The example of Duchamp, which with his "ready made" has challenged the very nature of art, is worthwhile for everyone. And there is no doubt that the Web has contributed profoundly to sparing the cards by igniting the debate, albeit with some danger of trivialization due to an overwhelming amount of images that obliges the user to extricate himself with difficulty from what has a recognizable aesthetic value from what it does not have at all. But the Net maintains an undisputed power, swallows everything, welcomes everything: the Net has no qualms of moral character and therefore, to look good, it is able to reflect that reality "without filter" that was mentioned at the beginning.

To prove it is "9 Eyes", the amazing work (2012) by the Canadian photographer and multimedia artist Jon Rafman. "9 Eyes" takes its name from the multifocal cameras mounted on the cars of Google Street Views, thanks to which we can all cross the streets of every location on the planet without moving from home. And not even a step did Rafman himself. His was a long process of research, which lasted years and during which he spent several tens of thousands images.

Soon two considerations. The first one concerns a chapter of "authorial property" which, judging by the numerous multimedia artists who draw on the images of the Net to create new and personal ones, does not seem to be a problem but instead imposes itself as an effective economic point between languages.

The raw material of amateur images - that precisely because of their "naivité" evoke a certain dignity - is conveyed in the creativity of the artists and here reversed until the assumption of the artistic status. It follows that the "owner" is someone who has been able to entrust the immense material of the Net with an autonomous language.

The second consideration is of an exquisitely photographic nature, relevant to its visual grammar and with which Rafman necessarily had to confront itself going back to the originality of the material.

As you have certainly noticed from the images of Google Street Views is absent any reference that may impact the legislation to protect the privacy of persons. The result is cities "sterilized" by human presence, whose streets are made to be crossed, to lead us quickly and safely from one end of the agglomeration to the other.

In "9 Eyes" there is all this (even here the faces of recognizable people have been blurred) but there is much more. And what's more is all that you do not have to show on Google Street Views. And here we come to the starting point, to those images of a reality "without filter", which in the photographs selected by Rafman is completely absent. This is a raw and stark street photograph, all the more ruthless because the nine cameras of Google have no vocation to spy; and it is in the absence of this attitude that a reality without mediations is returned to us.

"9 Eyes" leads us to the center of the streets. Observing the images we are witnessing to the grips with real life, with that unpredictable as vast randomness to suppose that the traditional "street photography" has somehow wanted to expurgate from its philosophy the raw aspects, more authentically "stradaioli" that somehow they had the power to undermine their visual grammar.

What we see in "9 Eyes" is what happens here and now. It is self-referential chronicle. It is a story that does not take into account anything but itself and therefore strictly linked to the source of provenance: the Internet. Jon Rafman invites us to explore the potential of the Web, to its inexhaustible ability to gather images, ready, if you have the intention, for our supplying.

In each photograph we find "The epic of normality", whereby an elk that runs on a Norwegian road looks like an epiphany, like others in which the strangeness of man appears grotesque and far-fetched but real. And it is precisely these, the people captured in their everyday life, who provide us with a sample of human sensibilities through their reactions; because not everyone caught by the neutral eye of Google Street Views has the pleasure of being immortalized. But this is an empty mirror: an image tells a lot more about what we are and therefore, once "discovered", this is why some subjects react vehemently.

"9 Eyes" is therefore to be considered a reportage in all respects, perhaps the most raw and truthful of recent times. In the flat form of his initial images (the directional compass at the top left, is an identifying totem), from the attempt to map the world viability, a new and profound reading of the social emerges and in which Jon Rafman has poured new meanings. That now extend to the photographic language.

Giuseppe Cicozzetti

from “9 Eyes”

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