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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Shane  BALCOWITSCH                                              (USA) 

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SHANE BALKOWITSCH

Ha scritto Dostoevskji che “se ogni cosa sulla Terra fosse razionale, non accadrebbe nulla”. L’imponderabile, così come il casuale, governa sulla presunzione dell’Uomo di sovrintendere al suo destino. Tuttavia egli teme il Caso, al pari di quello di cui non ha esperienza e vi resisterà, cercando di rimanere nel solco del presagibile. E’ fortunato invece colui che alla casualità si mostra arrendevole, perché avrà molti più modi, tanti più episodi per vedere moltiplicata la sua vita in un florilegio d’opportunità, per ammettere, infine, che nulla si può contro il Caso e che per quanto si sforzi di governarlo non potrà mai prevederne la sua multiforme imprevedibilità.
Se c’è un’attività dell’Uomo che deve molto al Caso è la fotografia. Non mi riferisco all’occasionalità dell’incontro tra fotografo e il soggetto, e che in assenza di tale “appuntamento” tutti noi saremmo rimasti privi di questa o di quell’altra immagine; mi riferisco in particolare a una tecnica di stampa che fa di chi vi si avvale una specie di specie di retroguardia o, visti i tempi, una ritrovata avanguardia. Dipende da come vogliamo leggere la storia della fotografia: il Collodio. Qui la chimica incontra la magia e insieme si inchinano alla casualità alchemica del risultato. Tecnica antica anzi, antichissima, vicina agli albori e presto tralasciata appunto per l’imprevedibilità dei risultati (ecco l’uomo che abdica a governare il Caso), i costi e la scarsa maneggevolezza dei supporti. Oggi in ogni angolo del mondo, affiora presso i fotografi un revivalismo per il Collodio, una scelta da considerare bentrovata, un “ritorno alle origini”. Il fotografo statunitense Shane Balkowitsch è tra quanti hanno scelto di lavorare esclusivamente con questa tecnica. E i risultati sono eccellenti: la sua ritrattistica è figlia di una tradizione antica su cui è stata appena spolverata la pesante patina farinosa della dimenticanza. Il tema che intercetta l’intera opera di Balkowitsch è quanto di più prossimo a un Pantheon nel quale è custodita la memoria, nel desiderio di contrastare l’azione erosiva del tempo, preservarne le tracce e, attraverso il ritratto, consegnare alla posterità l’immagine del proprio passaggio terreno. Volti ineccepibili. E declinati in un linguaggio che mastica la lezione di Weitfle, Edward Curtis e Gardner per riproporla nella modernità espressiva: alchimia che solo il Collodio sa unire. E in questa unione la ritrattistica è solo un medium, una lingua che insieme certifica presenza e il suo contrario, l’assenza, dove per assenza bisogna intendere l’estinzione di una cultura. La ritrattistica “indiana” di Shane Balkowitsch volge a questo, alla descrizione di un capitolo etnologico bruscamente interrotto da una colonizzazione che sgomitava per estendere il suo dominio economico e culturale.
Ogni ritratto che vediamo racconta una storia, grande o piccola che sia. Ognuno ha dignità d’essere ascoltato. E noi in ogni espressione cogliamo il mutevole avvicendarsi del Caso – lo stesso che ci rende diversi l’uno dall’altro. Ritratti dunque come microstorie, come brevi racconti nel quale leggiamo l’epilogo ma da cui intuiamo il travaglio. Ecco dunque che il ritratto di un uomo che stringe in mano delle catene non è dissimile dalla giovane donna indiana con in grembo il suo figlioletto. La concordanza è nell’empatia che i due personaggi – diversi per storia, sesso e quanto altro possiamo immaginare – scatenano allorché si presentano ai nostri occhi. Né peraltro sappiamo un granché sull’uomo con un cappio al collo (c’è in qualche modo una vena “Witkinsiana” appena accennata che affiora qua e là) ma la sua immagine, la stessa definizione obbliga a interrogarci. Le fotografie di Shane Balkowitsch posseggono una particolare tensione, qualcosa di chimico che agisce con la nostra immaginazione e che presto ci unisce in contatto con i soggetti. La donna che abbraccia se stessa portando le mani sul capo, ha occhi che indagano. E noi ci smarriamo. Ci interroghiamo se intimamente non sia un gioco nel quale non si sa chi guarda chi. E’ solo un momento. Ma tanto basta per provare il brivido d’essere noi una presenza, noi un’assenza, noi infine il ritratto guardato dal ritratto. Nei ritratti ravvisiamo fierezza, ritrosia, pudore, i soggetti si offrono alla nostra esplorazione – qui è la bravura Balkowitsch – privi di diaframmi che possano disturbare la lettura. C’è sincerità. C’è una messa a nudo della propria intimità: il soggetto si consegna nudo di fronte l’obiettivo e poi spetta al fotografo cucirgli l’abito che più gli si attaglia. E la linea non si interrompe, la tensione emotiva prosegue sia nella ritrattistica “etnica” che nella ritrattistica classicheggiante, che evoca forme e soluzioni “Westoniane” – come dire che Balkowitsch ha maturato la lezione dei grandi maestri e che evocarne la memoria stilistica è un doveroso omaggio, non solo un esercizio di “bella forma”.
Balkowitsch ha radici solide, il suo lavoro ricorda la concretezza delle praterie del Nord Dakota da cui proviene. Terra dura, gente vera, tradizione viva. E forse, chissà, è per questo che il suo lavoro è lontano dai facili richiami della modernità. Lontano sì, ma non così da non esserlo lui stesso che optando per il Collodio compie una scelta che lo pone in una dimensione anticonformista e distante dalla massa urlante dell’omologazione digitale. Per essere rivoluzionari, ha detto qualcuno, basta essere se stessi. Fino in fondo. Proprio come Shane Balkowitsch.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

foto Shane Balkowitsch 

http://sharoncol.balkowitsch.com/wetplate.htm
https://en.wikipedia.org/wiki/Shane_Balkowitsch

 

 

Dostoevsky wrote that "if everything on Earth was rational, nothing would happen." The imponderable, as well as the casual, governs the presumption of Man to oversee his destiny.
However, he fears the Case, just as he does not have experience and will resist, trying to stay in the foresight.
episodes to see his life multiplied in a florilegium of opportunity, to admit, finally, that nothing can be against the case and that efforts to govern it can never predict its multifaceted unpredictability.
If there is an activity of the Man who owes much to the Case is photography. I do not mean the occasionality of the encounter between a photographer and the subject, and that in the absence of such an "appointment" we would all be left out of this or that other image; I refer in particular to a printing technique that makes whoever use it a kind of rearguard or, given the times, a vanguard. It depends on how we want to read the history of photography: the collodium.
Here chemistry meets the magic and together they bend to the alchemical casualty of the result. Ancient technique, indeed, very ancient, close to the dawn and soon out of the way for the unpredictability of the results (here is the man who abdicates to rule the case), the costs and the poor handling of supports.
Nowadays in every corner of the world, a revival of collodium is emerging at the photographers, a choice to consider welcomed, a "return to the origins".
US photographer Shane Balkowitsch is among those who have chosen to work exclusively with this technique. And the results are excellent: his portraiture is the daughter of an ancient tradition on which the heavy flake of forgetting has just been dusted. The theme that intercepts the whole work of Balkowitsch is closest to a Pantheon in which memory is stored, in the desire to counteract the erosive action of time, to preserve its tracks and, through the portrait, the image of their own passage on Earth.
-propose it into expressive modernity: alchemy that only collodium can unite. And in this union, portraiture is only a medium, a language that together attests to its presence and its opposite, the absence, where by absence it is to be understood the extinction of a culture.
Shane Balkowitsch's "Indian" portraiture turns to this, describing an ethnological chapter abruptly interrupted by a colonization impatient to extend its economic and cultural dominance.
Every portrait we see tells a story, big or small. Everyone has dignity to be heard. And we in every expression grasp the changing mood of the Case - the same that makes us different from each other.
Portrays, therefore, as microstories, as short stories in which we read the epilogue but from which we experience troubles or anguish. That is why the portrait of a man clutching chains is not unlike the young Indian woman with her baby boy in her womb.
Concordance is in the empathy that the two characters - different for story, sex, and anything else we can imagine - spark when they appear in our eyes. Nor do we know much about the man with a neck loop (there is somehow a "Witkinsian" vein just mentioned here and there) but his image, the same definition, obligates us to question.
Shane Balkowitsch's photographs have a particular tension, something chemical that works with our imagination and that they soon connect us to the subject. The woman embracing herself, carrying her hands over her head, get eyes that look. And we get lost.
We wonder if intimately it is not a game in which one does not know who looks at who. It's just a moment. But just enough to try the thrill of being a presence, we absent, we at last a portrait viewed by the portrait.
In portraits we see pride, retrospection, shame, subjects are offered to our exploration - here is Balkowitsch's cleverness - without diaphragms that can disturb the reading. There is sincerity.
There is a nakedness of their own intimacy: the subject is bare naked in front of the lens and then it is up to the photographer to sew the dress he most fix to him.
And the line does not stop, the emotional tension continues in both "ethnic" portraiture and classical portraiture, which evokes forms and solutions "Westonian" - as saying Balkowitsch has gained the lesson of the great masters and evokes stylistic memory as worthy tribute, not just a "beautiful form" exercise.
Balkowitsch has solid roots, his work recalls the concreteness of the prairies of North Dakota from which he comes. Hard land, real people, live traditions. And perhaps, who knows, this is why his work is far from easy references to modernity.
Far away, but not so much, because opting for the collodium makes a choice that puts it in a nonconformist dimension and far from the screaming mass of digital homologation. To be revolutionary, someone said, just be yourself. Until the end. Just like Shane Balkowitsch.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Shane Balkowitsch

 

http://sharoncol.balkowitsch.com/wetplate.htm
https://en.wikipedia.org/wiki/Shane_Balkowitsch

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