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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Stephen Dean  WELLS                                                     (USA) 

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STEPHEN DEAN WELLS

 

Sostiamo sulla superficie. Prima di immergerci nella profondità delle cose, impariamo a sostare nella superficie. E non consideratelo vano: la superficie di ciò che non conosciamo è vasta, contiene moltitudini. Se osserviamo le immagini di Stephen Dean Wells, il nostro sguardo è immediatamente sopraffatto dalla ricchezza con cui si dispiegano contenuti e riferimenti. E già alla superficie ne veniamo attratti quasi inesorabilmente. C’è un respiro orientalistico che sembra dialogare con le tendenze pittoriche del Novecento, una sintesi che aggalla e si impone immagine dopo immagine. Qui, anima e corpo si incrociano per formare una nuova modulazione linguistica in cui i soggetti, immersi nella prossimità materica del reale, dibattono con la scena. C’è il giusto equilibrio. E il pathos è frenato dall’irrompere dal preminente dispiegarsi del colore, presenza non meno importante dei soggetti. Stephen Dean Wells muove i suoi passi con l’abilità d’un equilibrista, dosa misure di colore come un alchimista perché tutto concorra alla formazione di un’immagine che sappia esprimersi autonomamente. L’arabesco orientalista non è un residuo revivalista, è lontano dall’essere l’eco d’un ricordo remoto e Wells lo declina con convinzione filologica a corredo dei volti, riassumendo l’assunto antropologico delle protagoniste. Ma gli indugi etnici non si fermano qui: il colore, così come un’attenta composizione dell’immagine sfocia ora in un “japonisme” rigorista ora, come si è accennato, ad alcune commistioni cromatiche che ricordano Rothko. Ma l’ombra di Sarah Moon svicola in ogni momento. Chi sono allora le figure femminili di Wells? E cosa vogliono dirci? Esse, sono silenziosissime ancelle chiuse nella ricerca d’una sintesi, chiamate a concludere quell’articolato e insidioso “gioco del sé”. Ritagli, inserti, un pattern elaborato. Tutto concorre a fornire tracce, indizi: ci accompagnano sulla soglia della rivelazione, ma presto ci lasciano liberi di fornire a noi stessi la chiave interpretativa che ci appare più funzionale. Qui, una volta abbandonata l’esplorazione della superficie, troviamo la sorprendente staticità dei soggetti. Ferme nell’attesa, si offrono a noi come una sciarada, misteriosa e irrisolvibile quanto gli interrogativi della Sfinge. Stephen Dean Wells non dice, allude, suggerisce, compone immagini con mirabile maestria: egli è un costruttore di sogni, la realtà altro non è che un medium buono per scendere in profondità, negli abissi dell’inconosciuto, lì dove forse anche gli angeli temono di addentrarvisi. Restiamo in superficie, galleggiamo nella potenza dell’immaginazione. Ci basta, l’immaginazione contiene moltitudini.

Giuseppe Cicozzetti

foto Stephen Dean Wells

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Let's stand on the surface. Before diving into the depths of things, let's learn to stop on the surface. And do not consider it in vain: the surface of what we do not know is vast, it contains multitudes. If we look at the images of Stephen Dean Wells, our gaze is immediately overwhelmed by the richness with which contents and references unfold. And already on the surface we are attracted almost inexorably. There is an orientalistic breath that seems to dialogue with the pictorial trends of the twentieth century, a synthesis that attaches and imposes itself on any image. Here, body and soul cross to form a new linguistic modulation in which the subjects, immersed in the material proximity of reality, debate with the scene. There is the right balance. And the pathos is held back by the irruption of the pre-eminent unfolding of color, the presence of subjects no less important. Stephen Dean Wells takes his steps with the skill of an equilibrist, doses color measurements like an alchemist so that everything contributes to the formation of an image that knows how to express itself independently. The orientalist arabesque is not a revivalist residue, it is far from being the echo of a remote memory and Wells declines it with philological conviction accompanying the faces, summarizing the anthropological assumption of the protagonists. But the ethnic hesitations do not stop there: the color, as well as a careful composition of the image now flows into a rigorous "japonisme", now, as mentioned, to some chromatic mixes that recall Rothko. But Sarah Moon's shadow slips away at all times. So who are the Wells’ female figures? And what do they want to tell us? They are very silent handmaids closed in the search for a synthesis, called to conclude that articulate and insidious "game of the self". Cutouts, inserts, an elaborate pattern. Everything contributes to providing traces, clues: they accompany us on the threshold of revelation, but soon leave us free to provide ourselves with the interpretative key that appears to us to be more functional. Here, once the exploration of the surface is abandoned, we find the surprising static nature of the subjects. Still waiting, they offer themselves to us like a charade, as mysterious and unsolvable as the questions of the Sphinx. Stephen Dean Wells does not say, alludes, suggests, composes images with admirable skill: he is a dream builder, reality is nothing but a good medium to go deep into the depths of the unknown, where perhaps even angels fear to go into it. We remain on the surface, we float in the power of the imagination. It’s enough for us, the imagination contains multitudes.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Stephen Dean Wells

 

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