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Peter H. Waterschoot.
Un tempo imprecisato 
(*)

Quella necessità di ritagliarsi uno spazio al di fuori dallo scorrere fluido degli eventi la cui importanza si diluisce nel nulla di un attimo.

di Steve Bisson

Seguo il lavoro di Peter Waterschoot dagli esordi, da quando colpito dal tema della gentrificazione in Europa girava nostalgicamente per gli alberghi a poche stelle con la voglia di coglierne l'essenza. Uno spaccato formidabile di un'epoca al tramonto, il ventesimo secolo. Per chi ha trascorso una porzione significativa della propria esistenza nel "secolo precedente" può capitare di provare una qualche nostalgia. Le cose ti corrono attorno, ti saltano sopra e tu sei fermo che le osservi almeno incerto. L'impressione per molti è che questa, la nostalgia, abbia a che fare con il tempo, o con il fatto che le trasformazioni e le conseguenti relazioni accadono molto rapidamente, interessano lo stesso arco dell'esistenza e non sempre giungono accettabili. Si fatica ad adattarsi. A questa sensazione occorre reagire. L'arte è una possibilità. Il lavoro di Peter nasce da tale consapevolezza. Una sorta di resistenza almeno all'inizio, quasi istintiva, che ha ancora un retrogusto documentale. Ma è con la serie "At The Skin of Time" (2012-2019), opera fondamentale nel suo percorso, che l'artista belga marca definitivamente il proprio territorio. Egli delimita il suo campo d'azione e getta le basi per l'evoluzione del proprio linguaggio. La nostalgia quindi scema, resta la malinconia come colonna sonora sottofondo, un lievito indispensabile per un discorso che non ha più bisogno di essere autobiografico, perché è l'arte stessa, la sua arte, ormai il soggetto. 

Abbiamo detto che se il tempo corre troppo veloce allora occorre uscire dal tempo. L'arte, attraverso la creazione di immagini, diventa il modo per esercitare questa sfida. "Voglio crearmi un mondo soddisfacente innanzitutto per me e poi per altri che abbiamo piacere di entrarci" mi dice. Scappare il tempo e lo spazio, attraversa una rigorosa, ostinata e severa ricerca estetica. Peter vuole andare al nocciolo, scolpire la propria voce, rivelarla al pubblico senza compromessi, senza essere confuso con altre. Una dedizione ai dettagli e al processo che si fa sempre più attenta e totalizzante. Non a caso il lavoro successivo "Sunset Memory" (2019 - 2021) recentemente esposto al Musée de la Photographie, Charleroi e prossimamente alla Fototeca Siracusana, muove su un tracciato simile al precedente. Atmosfere che attingono dalla genere noir, un figurativo appena sussurrato, delicate gradazioni di colore, quasi astratte, e un tempo dilatato, come sospeso. Di nuovo torniamo alla faccenda temporale, che in Peter Waterschoot prova a tradursi in una sorta di eterotopia, con buona pace del neologismo di Foucault che si presta ora ad altro. Una dimensione libera di connettersi alla capacità di immaginazione, e di sviluppare meta narrazioni in una forma non lineare ma reticolare. Fotografie dunque quali momenti indecisi. 

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© Peter H Waterschoot - Intemporalità

Lo studio del giapponismo e della cultura giapponese rivestono un ruolo significativo nella pratica di Peter Waterschoot. I riferimenti letterari, Mishima, la meditazione come pratica per aprire a spazi non fisici, il confine sottile tra bello e brutto, tra passato e futuro. Tutto si sussegue nella nostra conversazione. Mi soffermo sull'immagine del vuoto, o dello spazio negativo che diventa linguaggio. Il bianco tra le opere. L'aria che respiriamo attorno agli oggetti che esiste anche se non la vediamo. Peter mi parla dei suoi ultimi allestimenti in cui i soggetti figurativi non prevalgono ma lasciano spazio ad altre immagini solo apparentemente vuote. Tutto torna. 

Eppure questa ricerca non è priva di insidie. "Posso spendere 4 giorni per fare una immagine. Come un pittore approccia la tela, così io approccio la mia scena". Mi chiedo se dopo tanti anni che lavora per affinare tecnica, stile, sfumature, non stia in realtà lavorando ad un'unica grande immagine. O meglio ad un'idea di immagine, attraverso cui controllare il tempo, padroneggiarlo, plasmarlo quasi fino al punto di toccarlo. Ora mi sto lasciando forse trasportare dalla fantasia. Peter mi riporta al presente, qui e adesso, citandomi un testo di Susan Sontag: "Notes on Camp". Me ne parla con entusiasmo, mi dice che traccia il confine tra camp e kitsch. Non voglio che le mie immagini varchino quella soglia. Come altri artisti Peter subisce la fascinazione della bellezza, tanto più quando si rifiuta di conformarsi, ma è ben conscio del rischio di scivolare nel cliques, e nell'accentuare certi toni letterari o cinematografici. Un lavoro di precisione, di cura sottile, di pulizia estetica è il rimedio. D'altra parte scivolare nella cosmetica è un attimo.

Penso in fondo che l'origini distopiche e "novecentesche", rappresentino un'ancora critica di salvataggio per garantire la tenuta coerente dell'intera sua produzione, quindi la sua riconoscibilità. Certe inquietudini adolescenziali forse ingenue poiché sdrammatizzate, da cui tutto si è mosso, oggi rappresentano una radice di autenticità nella virtualità effimera della spettacolarizzazione. Quel bisogno di ritagliarsi uno spazio fuori dai processi di conversione del mondo ad un fluido liquido di eventi la cui importanza è diluita nel nulla di un attimo sta alla base di quelle esigenze mentali che Peter definisce come "disappearing acts". 

Chissà forse un giorno queste immagini scompariranno pure per donare ossigeno a delle parole altrettanto evocative. Peter mi ha detto che ha deciso di intraprendere un percorso di studio sulla critica dell'arte. "Troppo carne al fuoco", poi commenta con un sorriso. Ricambio il sorriso, non posso farne a meno. In fondo la vita è una messa in scena. Chi meglio di lui lo sa.

_______. 

*dalla pagina web del sito URBANAUTICA 

https://urbanautica.com/review/peter-waterschoot-indecisive-moments/2574?fbclid=IwAR17Y1z2tHG3nRSMtSNpBbmm2RDVJmLKGGG4wHO7FLQ4M8JWL9gqrkkLB0E

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