FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Klavdij SLUBAN (Russia)
KLAVDIJ SLUBAN
Che si trovi a bordo di un treno lungo come la vita o nelle carceri giovanili dalle quali con sicurezza si uscirà peggiori di quando si è fatto ingresso, l’occhio di Klavdij Sluban, fotografo sloveno naturalizzato francese, mantiene una mirabile costante fatta di discrezione. E delicatezza. In ogni sua foto si respira un che di poetico, un sospiro sospeso tra una struggente nostalgia e un desiderio di documentare appena mitigato da una sensibilità che frena l’impeto irresistibile di ogni reporter. Eppure il suo lavoro è completo a partire dalla composizione delle immagini, nelle quali un “blurred” accentuato non offusca ma protegge, come un diaframma posto a protezione tra i soggetti e chi osserva, in un gioco di struggenti velature. Garanzia estesa alle cose, oltre che a donne e uomini, tanto che un ombrello capovolto e logoro, una smunta sterpaglia o interni evanescenti, riassumono dignità d’essere esibiti, quasi avessero ancora qualcosa da raccontarci e noi, catturati da tanta poesia, non possiamo che fermarci ad ascoltarli. Con gli occhi.
Nondimeno ci colpiscono i paesaggi. Che siano intravisti da un finestrino ferroviario o esplorati dalla sommità di un punto che non conosciamo, conservano una magia allusiva, una forza che esplica il suo carattere nella profondità delle brume. Traccia che però non perde potenza, anzi, la esalta, nelle immagini più a fuoco. Ecco che la vastità metafisica dell’Isola della Desolazione, giù alla fine del mondo, ci appare ancora più aspra e sorda se al centro si staglia solitaria la sagoma di un pinguino. E’ un invito, al quale ognuno è chiamato a partecipare, a non spaurirsi di fronte a una declinazione poetica della realtà più lacerante, perché tutto può essere raccontato. Anche un muro. E qui, nel rispetto accademico della “regola dei terzi” notiamo come il muro stesso sia una metafora nella quale è facile smarrire le proprie coordinate, obbligandoci a ripensare se la parte in cui noi muoviamo i passi sia quella giusta, o un letto sfatto nelle cui pieghe delle lenzuola leggiamo l’abbandono a un destino più forte della redenzione.
Lirismo e doppiezza; e ombre protagoniste di una scena bulimica di suggestioni: un raggio di luce che squarcia l’oscurità di una scena e la divisione in terzi della composizione è fatta. E magnificamente, come una rivelazione, e nella cui filigrana intravvediamo quanto c’è ma non è poi così funzionale al racconto tanto da essere celato per essere “scoperto” appena dopo.
Klavdij Sluban è un giovane poeta cui è stato donato un obiettivo. Non scrive ma fotografa, ed è la luce a riempire le pagine del libro che chiamiamo fotografie.
Giuseppe Cicozzetti
foto Klavdij Sluban
Whether his is on a train as long as life or in the juvenile jails from which you are sure to come out worse than when you entered, the eye of Klavdij Sluban, a Slovenian photographer based on France, maintains an admirable constant made of discretion.
And delicacy. In every picture there’s a poetic, a sigh suspended between a yearning homesick and a desire to document just mitigated by a sensitivity that hinders the irresistible impetus of every reporter. Yet his work is complete starting from the composition of the images, in which an accentuated "blurred" doesn’t obscure but protects, like a diaphragm placed to protect between the subjects and the observer, in a game of poignant veiling.
Warranty extended to things, as well as to women and men, so that an upside down and worn umbrella, a smash scrub or evanescent interior, summarize the dignity of being exhibited, as if they still had something to tell us and we, captured by so much poetry, we can not that stop to listen to them. With the eyes.
Nevertheless the landscapes strike us. Whether they are glimpsed from a railway window or explored from the top of a point that we don’t know, they retain an allusive magic, a force that exerts its character in the depth of the mists. Trace, however, that does not lose power, on the contrary, exalts it, in the most in-focus images.
Here the metaphysical vastness of the Isle of Desolation, down at the end of the world, appears even more bitter and dull if the outline of a penguin stands out in the center. It’s an invitation, to which everyone is called to participate, not to fret in front of a poetic declination of the most lacerating reality, because everything can be told. Even a wall.
And here, in the academic respect of the "rule of thirds" we see how the wall itself is a metaphor in which it is easy to lose your coordinates, forcing us to rethink whether the part in which we move the steps is the right one, or an unmade bed in the whose folds of the sheets we read the abandonment to a destiny stronger than the redemption.
Lyricism and duplicity; and shadows protagonists of a bulimic scene of suggestions: a ray of light that pierces the darkness of a scene and the division into thirds of the composition is made. And beautifully, as a revelation, and in whose filigree we glimpse what is there but it isn’t so functional to the story that it is hidden to be "discovered" just after.
Klavdij Sluban is a young poet who has been given a lens. He doesn’t write but photographs, and it is light that fills the pages of the book that we call photographs.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Klavdij Sluban