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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Paolo PELLEGRIN              (IT)

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PAOLO PELLEGRIN

E’ innegabile che Paolo Pellegrin sia il più grande tra i fotoreporter italiani. E non è un caso che con Alex Majoli (con cui ha dato vita a una collaborazione confluita in “Congo” e col quale condivide l’appartenenza all’agenzia Magnum) e Stefano Unterthiner sia tra gli unici italiani a collaborare stabilmente con il National Geographic Magazine. Subito un interrogativo: come si concilia lo stile di Paolo Pellegrin (bianco e nero, mosso, scatti veloci, ruvidi) con il linguaggio scrupolosissimo delle immagini che appaiono sulla prestigiosa rivista? La risposta è nella stessa policy della rivista e che rivive nel motto aziendale coniato da un passato direttore, secondo cui le foto del National Geographic devono rispondere a tre requisiti: “Devono essere belle, belle e belle”. E infatti bellissime sono le fotografie “cubane” per NG di Paolo Pellegrin, un mix a colori (Pellegrin utilizza indistintamente bianco e nero e colore) che ha sintetizzato le aspettative documentaristiche e la personale vocazione per un reportage mai disgiunto da una nota per così dire “espressionista”. Ed proprio quest’ultimo aspetto la forza di Pellegrin. Una prerogativa del reportage è la produzione di immagini limpide, che non siano altro che la rappresentazione di un evento, guidate cioè da un’etica deontologica secondo cui ogni manipolazione è vietata, e che conduca l’osservatore a una lettura del “fatto” senza ambiguità. Poi c’è la questione dello stile, del linguaggio personale, e dunque se alla “concretezza” delle immagini si aggiunge una propria forza espressiva che dialoga efficacemente con la notizia allora si avranno buone foto. Nei reportage di Paolo Pellegrin riscontriamo una efficacissima sinergia tra forma e contenuto, nella quale si comprende come le difficoltà di trovarsi in una zona di conflitto siano spesso girate a suo vantaggio (rapidità nella cattura, concitazione del momento, scarsità di luce) e, aggiungerei, alla nostra osservazione. Dunque la crudezza delle immagini si vincola con la bellezza, raggiungendo un lirismo drammatico ricco di suggestioni funzionali alla narrazione e nel quale cogliamo per intero il dolore di vite spese nel pericolo. Sul reportage fotografico si è detto molto, a torto o ragione, tra cui l’accusa di “generare una retorica visuale tendente alla spettacolarizzazione”, nella quale il fotografo racconterebbe una realtà “sezionata” e collocata in un quadro espressivo che attiene a una poetica individuale e non alla raffigurazione oggettiva degli eventi. Se questo rischio esiste (ed esiste) non attiene a Paolo Pellegrin che ci pare più interessato a una fotografia “non finita”, suggestiva e al contempo capace di generare una discussione, contrariamente ad altre fotografie dal carattere esclusivo e auto referenziale; ed è per questo che tra i fotoreporter è il più apprezzato.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

foto Paolo Pellegrin

 

https://pro.magnumphotos.com

It’s undeniable that Paolo Pellegrin is the biggest Italian photojournalist. And it is no coincidence that with Alex Majoli (with whom he started a collaboration merged in "Congo" and with which he shares the membership Magnum) and Stefano Unterthiner is among the only Italians to work steadily with National Geographic Magazine.

Immediately a question: how do you reconcile Paolo Pellegrin's style (black and white, rough, quick, rough shots) with the scrupulous language of the images that appear in the prestigious magazine? The answer is in the same policy of the magazine and that lives in the company motto coined by a former director, according to which the photos of National Geographic must meet three requirements: "They must be beautiful, beautiful and beautiful".

In fact, the "Cuban" photographs for NG by Paolo Pellegrin are beautiful, a color mix (Pellegrin uses indistinctly black and white and color) that has summarized the documentary expectations and the personal vocation for a report never disjointed from a note so to speak "expressionist". And this last aspect is the strength of Pellegrin. A prerogative of the report is the production of clear images, which are nothing more than the representation of an event, guided by a ethical ethics according to which any manipulation is prohibited, and which leads the observer to a reading of the "fact" without ambiguity.

Then there is the question of style, of a personal language, and therefore if the "concreteness" of the images is added to its own expressive force that effectively dialogues with the news then you will have good photos. In the report by Paolo Pellegrin we find a very effective synergy between form and content, in which we understand how the difficulties of being in a conflict zone are often turned to his advantage (speed of capture, excitement of the moment, lack of light) and, I would add, to our observation.

So the crudity of images is bound with beauty, reaching a dramatic lyricism full of suggestions functional to the narration and in which we fully grasp the pain of lives spent in danger. On the photographic report a lot was said, wrongly or rightly, including the accusation of "generating a visual rhetoric tending to the spectacularization", in which the photographer would tell a "sectioned" reality and placed in an expressive framework that concerns a poetic individual and not to the objective representation of events. If this risk exists (and exists) it does not pertain to Paolo Pellegrin who seems more interested in an "unfinished" photograph, suggestive and at the same time capable of generating a discussion, unlike other photographs with an exclusive and self referential character; and that's why among the photojournalists is the most appreciated.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Paolo Pellegrin

 

https://pro.magnumphotos.com

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