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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Ivano MERCANZIN              (IT)

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IVANO MERCANZIN

La serie ‘Boys don’t cry’ di Ivano Mercanzin agita una tematica insita nella natura stessa della fotografia e che riguarda la scomposizione temporale dell’episodio fotografato. La fotografia sembrerebbe invitarci a trovare in un “qui e ora” l’addensarsi del suo significato ma noi sappiamo che non è così. La fotografia congela un tempo, essa non ha cura, né può, del tempo che precede lo scatto né di quello che lo segue; e dunque, come invitandoci alla stesura di una trama perché si annodi quanto ha voluto dirci, l’osservatore è chiamato a stabilire una relazione con il visibile, perché si definiscano i termini del racconto. Ma non solo. Una volta stabilite le momentanee competenze tra l’osservato e l’osservatore, nei termini di un reciproco contributo narrativo, c’è da domandarsi come la fotografia, che per definizione si “nutre” di realtà, abbia saputo rappresentare l’invisibile che abita i sentimenti dell’uomo. ‘Boys don’t cry’ risponde a questo interrogativo con una serie di suggestioni che rimandano alla complessità del rapporto identitario tra un sé privato, intimo, e un ribaltamento dello stesso, nel versante delle relazioni sociali che, alla luce della solitudine nella quale è immerso, il soggetto presumiamo complicate.  Molti soni i piani di lettura in ‘Boys don’t cry’, segno di un buon lavoro.  Vediamo subito, ad esempio, come il soggetto predomini la scena: la giovane donna è sempre presente, essendo colta a una distanza o con strettissimi piani, è padrona involontaria della scena. Noi non sappiamo chi sia e non è necessario: il suo disagio è universale e ben riconoscibile e dunque si impone come la “frazione singola” di una centralità assai più complessa. Si direbbe una metafora. E lo è. Ma è una metafora ben tracciabile, riconoscibile e nota come qualcosa che abbiamo appena intravisto o nella quale qualcuno è precipitato e quindi ora capace di distillarne il significato. Nella giovane vive una ferma agitazione di traboccante tormento, come esposta a una rude corrente di cui teme finire alla mercé. Pare che non abbia appigli, se non se stessa. E a se stessa si aggrappa, e a una solitudine rinfrancante, quasi che nel silenzio pacificatore o nella distanza dagli altri opponga come un’arma le sartie del pensiero a quella voce interiore che la vorrebbe nel novero dei “dispersi”. “Eccomi” le dice la voce, “eccomi qui” e rimbalza come un’eco tra le macerie dei giorni per confonderla come una bimba appena venuta al mondo. L’obiettivo di Mercanzin se è solido nella struttura narrativa è altrettanto delicato nell’approccio: il fotografo rappresenta, indaga, scruta ma non giudica. Per sé non ha riservato nessun ruolo che non sia quello testimoniale lasciando a noi – nella dinamica cui si faceva riferimento in apertura – il compito di scrutare gli attimi di un disvelamento, di una tregua che non è ancora pace ma nel cui silenzio ravvediamo un habitat entro il quale è possibile ritrovarsi. C’è nelle fotografie di ‘Boys don’t cry’, così ben stabilito dal fotografo, il rumore di un silenzio che pare parlare una lingua comprensibile solamente al soggetto e in cui noi siamo chiamati a partecipare alla fondazione di equilibrio sconosciuto e salvifico. E in questo raccoglimento che pervade ogni scatto, dilaga un senso di smarrita libertà, la primordiale vocazione a respirare la propria essenza di essere umano. Ivano Mercanzin è fotografo sensibile. Senza questa caratteristica sarebbe impossibile addentrarsi nell’ambiente di un malessere senza cadere nelle facili sottolineature che poco o nulla avrebbero aggiunto al racconto se non il desiderio di sorprendere. Ma ‘Boys don’t cry’ è una storia che si ascolta lentamente, sottovoce, come un bisbiglio; non c’è luogo per l’urlo, non c’è posto per il gesto eclatante né per le pose drammatiche: qui tutto ha lo stesso scorrere del tempo; qui tutto ha il gusto placido della vita, come il raggio di sole che si posa sul volto della giovane donna o quando alle mani è assegnato il compito d’un complice contatto. Si osserva ‘Boys don’t cry’, si osserva e si ascolta: lo si osserva con la ragione, lo si ascolta con le emozioni che sa offrirci. E se un lavoro suscita empatia, se guardando quelle foto riusciamo ad appassionarci a una vicenda sconosciuta solo un momento prima allora il fotografo ha fatto un ottimo lavoro.

 

Giuseppe Cicozzetti

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