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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Santolo  FELACO 2                                                                   (IT)

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SANTOLO FELACO 2

Spleen, nutrice d’angoscia, greve compagno dei giorni. Noia agghiacciante coltiva nel petto dell’uomo, che simile a un fiore dai petali neri devasta e avvelena. Spleen, malinconico sole, arida acqua, triste suolo. Presto diventa padrone, dilaga nell’anima e poi che vi ha preso dimora fa strame di vita. Giorni senza storia, tempi senza senso. Come quelli che stiamo vivendo. Se la letteratura, attraverso l’uso sapientissimo delle parole, ha saputo descrivere la malinconia ed elevarla a soggetto, e blandirla talvolta come “dolce, ma ben diversa dalla gioia” (Leopardi), la fotografia, a causa della sua manchevolezza assertiva, necessita di un codice visivo simbolico, allusivo, di un apparato di segni che concorra al compito che si è assegnato. “Spleen” è il titolo del progetto di Santolo Felaco. Qui il tema della malinconia è svolto intorno alla consapevolezza di un disagio ormai emerso, divampante, nel quale affiora la debolezza dell’essere di fronte a “un vento che non spira, a un’acqua che non disseta, a un mare senz’onde” (Rilke). E’ la malinconia, gelante di noia. Felaco traspone in immagini un tema grandioso e terribile, uno, per intenderci, che una volta deciso di esplorarlo obbliga alla sincerità, a non lasciare esclusa cioè nessuna delle sue declinazioni. Così, tra memorie e ricordi il fotografo avvia la sua personale discesa nelle viscere del disagio; là dove l’aria è greve e le speranze si guardano alla filigrana della dissipazione; là, nel nudo territorio dove è impossibile ogni mistificazione e dove, proprio per questo, “l’amica della verità”, sempre per citare Leopardi ci costringe a guardare dentro noi stessi. Le fotografie di “Spleen” sono un dolente, spietato e poetico catalogo del disagio, in cui l’articolata rete di segni si appresta a divenire un consuntivo della condizione umana. Le immagini più fortemente attraversate dal tessuto allusivo della metafora si alternano a immagine più chiare, dirette, come sottolineare il momentaneo affiorare della coscienza. Simboli religiosi, mappe geografiche, sgranature si alternano a strappi, a corrosioni convincenti sotto il profilo della corruzione della coscienza. L’uomo è memoria. E azione. Al gesto corrisponde la sua storia. E dunque dai volti coperti da un nero ovale, in quel magnifico “ritratto senza facce”, apprendiamo come la malinconia abbia la vocazione a cancellare la vita, a sostituirsene. Poi, come a completare un percorso intrapreso e inoltrandosi negli immancabili rivoli dell’introspezione, Santolo Felaco ci conduce nella dimensione dell’onirico con immagini in negativo che hanno il potere di dirci che, come un cane che non conosce padrone, la malinconia non concede nessuna tregua e affolla i sogni di visioni disturbanti, velenose non meno di quelle che agiscono con la luce del sole. Nostalgia di vita, desiderio di vincere sulla “scelleratissima menzogna, che prima ti seduce e poi ti governa” (Dickinson), “Spleen” dissemina grida che giungono a noi con la soavità d’un verso, con la disperata delicatezza che c’è in un giorno che abbiamo amato e che vediamo scomparire senza poterlo fermare. Da qui, da questo terribile interludio fuoriescono fantasmi, terribili giudici che fanno domande, ma che cura non hanno di nessuna risposta. “Spleen” è un racconto scritto nell’oscurità delle tenebre, nelle viscere delle emozioni, nel solo posto cioè dove la verità ha facoltà di chiamarsi ancora con il suo nome. È un viaggio notturno, insidioso – perché è insidioso parlare d’un disagio –; solo a tratti dei barlumi di luce ne illuminano il percorso, ma Santolo Felaco impedisce che qualcuno si smarrisca: spesso, al buio si scorgono cose che nessuna luce ci permette di scorgere, sembra dirci mentre intreccia simboli. E a noi, “spiriti vaganti e senza Patria” (Baudelaire), non resta che interpretarli alla luce della nostra sensibilità.

Giuseppe Cicozzetti

Da “Spleen”

foto Santolo Felaco 

http://www.santolofelaco.com/

 

 

Spleen, nurse of anguish, heavy companion of the days. Chilling boredom cultivates in the man's chest, which, like a black petals flower, devastates and poisons. Spleen, melancholy sun, arid water, sad soil. Soon it becomes master, spreads in the soul and then that it took up residence makes a mess of life. Days without history, times without meaning. Like the ones we are experiencing. If literature, through the wise use of words, has been able to describe melancholy and elevate it to a subject, and sometimes coax it as "sweet, but very different from joy" (Leopardi), photography, due to its assertive shortcomings, needs of a symbolic, allusive visual code, of an apparatus of signs that contributes to the task that has been assigned. "Spleen" is the title of the Santolo Felaco’s project. Here the theme of melancholy is developed around the awareness of a discomfort now emerged, flaring, in which the weakness of being in front of "a wind that does not blow, a water that does not quench thirst, a sea without waves"(Rilke). It is melancholy, freezing with boredom. Felaco transposes a grandiose and terrible theme into images, one, to be clear, that once he has decided to explore it, he obliges sincerity, not to leave any of its variations excluded. So, between memories and memories, the photographer starts his personal descent into the bowels of discomfort; where the air is heavy and hopes look to the dissipation watermark; there, in the bare territory where any mystification is impossible and where, precisely for this reason, "the friend of truth", to quote Leopardi, forces us to look inside ourselves. The photographs of "Spleen" are a painful, ruthless and poetic catalog of unease, in which the articulated network of signs is preparing to become a summary of the human condition. The images most strongly traversed by the allusive fabric of metaphor alternate with clearer, more direct images, as if to underline the momentary emergence of consciousness. Religious symbols, geographical maps, grains alternate with tears, with convincing corrosions in terms of corruption of conscience. Man is made of memory. And action. His story corresponds to the gesture. And therefore from the faces covered by an oval black, in that magnificent "portrait without faces", we learn how melancholy has the vocation to cancel life, to replace it. Then, as if completing a path taken and advancing into the inevitable rivulets of introspection, Santolo Felaco leads us into the dreamlike dimension with negative images that have the power to tell us that, like a dog that knows no master, melancholy does not allow no respite and crowd the dreams of disturbing, poisonous visions no less than those that act with sunlight. Homesick for life, desire to win over the "wicked lie, which first seduces you and then governs you" (Dickinson), "Spleen" scatters cries that come to us with the gentleness of a verse, with the desperate delicacy that there is in a day that we loved and that we see disappear without being able to stop it. From here, from this terrible interlude, ghosts emerge, terrible judges who ask questions, but who care they have no answer. "Spleen" is a story written in the darkness of darkness, in the bowels of emotions, in the only place that is where the truth has the power to still be called by its name. It is a night journey, insidious - because it is insidious to speak of an unease -; only at times the glimmers of light illuminate their path, but Santolo Felaco prevents someone from getting lost: often, in the dark you can see things that no light allows us to see, it seems to tell us while weaving symbols. And to us, "wandering spirits and without a country" (Baudelaire), we just have to interpret them in the light of our sensitivity.

Giuseppe Cicozzetti

from “Spleen”

ph. Santolo Felaco 

http://www.santolofelaco.com/

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