FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Louis FAURER (USA)
LOUIS FAURER
C’è un alone crepuscolare nelle fotografie di Louis Faurer (1916-2001), come una specie di vocazione a narrare lo “spleen” di una metropoli come New York. Anziché soffermarsi sull’indistinto brulicare di anime, alla ricerca cioè della convulsione rituale che tanto sarebbe piaciuta alla street che sarebbe arrivata più tardi, Faurer mira alla compassione di donne e uomini che, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra sembrano ricambiare la vita della gratitudine che merita. New York, a uno che viene da fuori – Faurer nasce a Philadelphia – offre un potenziale inimmaginabile, è il fulcro irraggiante curiosità e dunque non è per caso che il fotografo abbia confessato che «il viaggio da Philadelphia a New York sia stato il più importante che abbia mai fatto». Qui Faurer racconta l’ambiente urbano con grande sensibilità e originalità. Eppure Louis Faurer non ha avuto lo stesso riconoscimento professionale di tanti suoi colleghi e amici. E che amici. Con Diane Arbus, William Klein e Robert Frank riscrive l’estetica visiva americana, sganciandola definitivamente dalle patinature rassicuranti per scoprirla alla spericolatezza della verità, all’anarchia del reale, alla complessità della vita. Ma Faurer non possiede il furore iconoclasta dei suoi compagni di viaggio, è piuttosto attraversato da una delicatezza che colpì Lillian Bassman, che lo volle con sé ad Harper’s Bazaar, ma le sue fotografie di moda erano già intrise da una vocazione documentaristica e da un sottile afflato umanistico. Lo vediamo, in particolare, nella foto in cui il delicato volto di una giovane donna è alle prese con un silenziosa conversazione con un uomo. Lui è sordo, e tanto più la fotografia assume quel senso carezzevole d’un momento intimo da proiettare nella nostra sensibilità una luce di calda solidarietà. La New York di Louis Faurer è affollata di momenti distopici. Il desiderio di comprenderne la profondità distorce la sua fotografia, la cambia nella velocità del momento come se sentisse la necessità di affondare l’obiettivo nella carne viva di una narrazione che nasconde in profondità il nucleo fondante della sostanza. Ecco che le lunghe esposizioni, le sovrapposizioni ci appaiono a un tratto la chiave di lettura di uno spirito critico che comprende l’articolazione dei piani di lettura e la necessità di restituirli quanto più integri possibile. Louis Faurer è stato lungamente dimenticato, la sua voce dispersa nel coro indistinto di una street che non sa più guardare. Eppure è un gigante, un uomo grato alla vita e a New York, un fotografo che ha saputo raccontare lo spirito americano nel passaggio dall’ansia del secondo conflitto mondiale e il suo superamento. Senza enfasi. Senza retorica, ma con l’impegno di chi sa di avere delle responsabilità verso il proprio lavoro. E non è poco. Non lo è mai stato. Per questo Louis Faurer è stato un grande uomo ancorché un grande fotografo.
Giuseppe Cicozzetti
foto Louis Faurer
There’s a twilight halo in Louis Faurer's photographs (1916-2001), as a kind of vocation to narrate the "spleen" of a metropolis like New York. Instead of dwelling on the indistinct swarm of souls, that is, in search of the ritual convulsion that would have liked the street later, Faurer aims at the compassion of women and men who, in one way or another, for one reason or another the other seem to reciprocate the life of gratitude it deserves. Instead of dwelling on the indistinct swarm of souls, that is, in search of the ritual convulsion that would have liked the street later, Faurer aims at the compassion of women and men who, in one way or another, for one reason or another the other seem to reciprocate the life of gratitude it deserves. New York, to someone who comes from outside - Faurer was born in Philadelphia - offers unimaginable potential, is the fulcrum of curiosity and therefore it is not by chance that the photographer confessed that «the trip from Philadelphia to New York was the most important I've ever done». Here Faurer tells the urban environment with great sensitivity and originality. Yet Louis Faurer has not had the same professional recognition as many of his colleagues and friends. And what friends. With Diane Arbus, William Klein and Robert Frank he rewrites the American visual aesthetic, releasing it definitively from the reassuring patinations to discover it to the recklessness of truth, to the anarchy of reality, to the complexity of life. But Faurer doesn’t possess the iconoclastic fury of his travel companions, he’s rather crossed by a delicacy that struck Lillian Bassman, who wanted him with him at Harper's Bazaar, but his fashion photographs were already imbued with a documentary vocation and a subtle humanistic afflatus. We see it, in particular, in the photo in which the delicate face of a young woman is grappling with a silent conversation with a man. He is deaf, and all the more photography takes on that caressing sense of an intimate moment to project a light of warm solidarity into our sensitivity. Louis Faurer's New York is crowded with dystopian moments. The desire to understand its depth distorts his photography, changes it in the speed of the moment as if he felt the need to sink the lens into the living flesh of a narrative that deeply hides the founding core of the substance. Here the long exposures, the overlaps suddenly appear to us the key to reading a critical spirit that includes the articulation of the reading plans and the need to return them as intact as possible. Louis Faurer has long been forgotten, his voice lost in the indistinct chorus of a street that no longer knows how to look. Yet he is a giant, a man grateful to life and in New York, a photographer who has been able to tell the American spirit in the transition from the anxiety of the Second World War and its overcoming. Without emphasis. Without rhetoric, but with the commitment of those who know they have responsibilities towards their work. And it is no small thing. It never was. This is why Louis Faurer was a great man although a great photographer.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Louis Faurer