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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Francesca COMMISSARI                                      (Italia) 

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FRANCESCA COMMISSARI

Una voce che viene ripetuta fino allo stordimento è quella secondo cui il fotogiornalismo è morto. Certamente non sta bene, ma aspetterei a celebrarne le esequie. Le cause della crisi (evidente) sono molteplici e legate l’una all’altra. La prima è la contrazione delle risorse di riviste e giornali, che preferiscono utilizzare immagini di stock disponibili in rete. Questa scelta rimanda a una criticità ancora più vasta e che sta nella enorme quantità di immagini disponibili, una sovrabbondanza di fotografie buone per ogni genere di servizio. La bulimia fotografica – molto spesso prodotta da fotografi non professionisti, a testimonianza della quale basta dare una sbirciatina ai social che si occupano quasi esclusivamente di immagini fotografiche – collega il fenomeno a un problema che deflagra proprio negli uffici e nelle agenzie stampa che, governati dalla velocità, spesso sono costretti a omettere la cura necessaria a ciò che un tempo si chiamava “verifica dei fatti” e infatti – soprattutto nell’informazione digitale – non sono rari i casi di immagini scollegate dal testo nel tempo e nei luoghi. Poi c’è un altro aspetto non certo secondario, la proprietà dei mezzi di informazione. Posto che gli editori “puri” non esistono quasi più – figure che nello spazio dell’autonomia non avevano referenti – il controllo di quotidiani e riviste è molto spesso di gruppi imprenditoriali, per cui un’inchiesta fotografica libera potrebbe interferire con gli interessi del gruppo. Poi, ad aggravare la situazione, c’è il problema del “racconto”. Si sente dire molto spesso che non c’è più cosa raccontare, che il mondo si è così contratto e avvicinato nella conoscenza di un episodio (è vero, oggi quello che accade che so? in Papuasia, in pochi minuti è fruibile in tutta l’orba terracquea) che non sembrano esservi ostacoli alla veicolazione. Tuttavia non è sempre così. L’informazione non è neutrale, sceglie di cosa occuparsi per cui tanto una notizia è prossima al nostro interesse culturale, sociale, umano, tanto più avrà risalto nella “scaletta” dei media a svantaggio di cosa è accaduto lontano da noi, a meno che non si tratti di un’ecatombe. In questo spazio c’è posto ancora per un vero racconto. E’ il caso del destino economico e sociale del Venezuela, paese oggi a noi distante come la luna dalla terra ma con il quale abbiamo dei rapporti di reciprocità culturali innescati da una robusta ondata di emigranti Italiani stabilitisi negli anni passati proprio nel paese latino-americano. Morto Chavez, amato o detestato, il Venezuela non si è più riavuto e oggi una crisi economica ha condotto il paese verso condizioni di vita sotto il limite della sussistenza, a causa del quale non si contano i torbidi tra la popolazione stremata. E affamata. Ne eravamo al corrente? Se si, pochi. Di sicuro ne era al corrente la fotoreporter Francesca Commissari che era lì e che ha saputo testimoniare (rischiando l’incolumità e conoscendo gli arresti) in piena autonomia e oggettività le proteste di un popolo ridotto allo stremo, affamato di pane e diritti. L’attività di Francesca (emiliana trapiantata in Sicilia e di cui ha raccontato lo sfruttamento dei migranti nelle serre del sud-est) ci conduce dritti al cuore della libera informazione, quella per cui rischiare la pelle pur di narrare una storia è già in preventivo (e sono molti i fotografi che hanno perduto la vita nei terreni di guerra). Le fotografie che vediamo, confluite in un reportage dal titolo “Crisi in Venezuela”, raccontano una storia nella storia, segno che vi può essere spazio per un fotogiornalismo di denuncia che sia ancora degno di questa definizione e che insieme recuperi la sua vitalità.

E’ il febbraio del 2014. Un caso di violenza sessuale si verifica all’interno dell’Università de Los Andes. Gli studenti manifestano e riempiono le strade con cortei di protesta. La repressione della Guardia Nacional non si fa attendere e alla fine degli scontri lascerà prive di vita oltre 40 persone. Si parlerà di detenzione illegale, di tortura, di diritti cancellati mentre il Governo impedirà la diffusione delle notizie, in accordo all’assunto per cui la prima vittima di una guerra è la verità.

Francesca è lì, tra quei giovani. Fotografa tutto, perché l’obiettivo di un fotografo ha la forza rendere futuro una cosa di oggi perché non se ne disperda la memoria. Immagini convulse, rubate, nervose, cariche di lotta e speranza attraverso un taglio fotografico che non dimentica la sua missione: fare buone foto. Il valore cronistico delle fotografie di Francesca non è mai disgiunto da una ricerca visiva, da un intuito per composizione che ci convince e che ci fa leggere la portata del dramma in un dettaglio o addirittura nella sua momentanea assenza di corpi. A questo proposito si osservino due foto emblematiche e riuscitissime: quella in cui la centralità dei manifestanti è rappresentata solo dalle loro ombre e l’altra nella quale cogliamo un dettaglio della manifestazione in un frammento di specchio rotto, sulla strada. In entrambi i casi si tratta di immagini forti, che dicono molto più di quello che si vede, ed è questa la maestria con la quale Francesca Commissari ci parla. Poi c’è l’inevitabile forza delle immagini corali, delle quali immaginiamo le urla, le grida e la tensione di una giornata durissima. Un lavoro come “Crisi in Venezuela” ha una natura didattica, spiega; e spiega con la spietatezza obiettiva richiesta a un buon fotoreporter, categoria a cui Francesca appartiene di diritto e in cui è contenuta la speranza stessa di una vita ancora lunga del fotogiornalismo.

Giuseppe Cicozzetti

Foto Francesca Commissari

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