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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Claude CAHUN                                                                            (Francia) 

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CLAUDE CAHUN

Siamo tutti alla ricerca di noi stessi. Ora come in passato, a dimostrazione che la principale speranza di armonia nel nostro intimo risiede nella pluralità delle nostre identità. Esse, giacché esistono, si intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie non solo a ciascuna definizione, ma si oppongono a drastiche divisioni lungo linee di confine a cui nessuno può opporre resistenza. Sentirsi a proprio agio nella pelle che abitiamo è innegabilmente la più gloriosa delle liberazioni. Questa è la storia di Claude Cahun (1894-1972) la donna che volle fare di se stessa un’opera d’arte. Nata Lucy Renée Mathilde Schwob, da una famiglia di intellettuali e artisti, Claude Cahun (che lei stessa non definirà mai uno pseudonimo, quanto il nome che meglio la descrive), rivendica sulla propria pelle il diritto alla “neutralità”, una febbrile condizione che ha in sé l’equidistanza della libertà, la distruzione delle etichette sull’altare del conformismo. Oggi, secondo i principi del politically correct, saremmo portati a definirla “gender fluid”, ma in fondo anche questa è un’etichetta che Claude Cahun avrebbe rifiutato, perché una qualsiasi definizione serve solo a chi la utilizza: molto spesso è con le parole che si costruiscono gabbie. E se sei giovane, donna, lesbica, ebrea e vivi in Francia durante l’affaire Dreyfus, e dunque esposta a continue aggressioni antisemite, non resta che espatriare e attendere che gli spiriti tornino alla ragionevolezza. Al ritorno dalla Gran Bretagna, suo padre ha preso una nuova moglie. Mai regalo più grande poteva farle, perché quelle nozze le condussero agli occhi e poi dritta nel cuore come una spada, la figlia della matrigna, Suzanne Malherbe. Fu colpo di fulmine, le due giovani donne si innamorarono per non lasciarsi mai più. Claude respira surrealismo. I suoi amici si chiamano Breton, Tzara, Dalì, Ernst, Man Ray, Bataille e Henri Michaux, cui dedicherà un ritratto. Sono gli anni dell’ambiguità consapevole, del “camouflage”, delle sperimentazioni che si affiancano allo specifico fotografico, ponendo le basi di un dibattito che dura ai nostri giorni, quello cioè della trascendenza del mezzo a favore delle espressività plurali. Espressioni che tuttavia anche nelle avanguardie artistiche del Novecento erano innervate da un maschilismo che assoggettava le artiste a un ruolo secondario se non irrilevante. Ma non è certo il conformismo degli anti-conformisti a fermarla. Nelle fotografie di Claude Cahun, l’immagine migra nello spazio simulato dei sogni, dei desideri e degli ideali, immettendo una robusta quantità di finzione in una fotografia costruita realisticamente. L’immagine fotografica è dunque sospesa tra realtà e irrealtà, conducendo a chi l’osserva rimandi visivi di un’altra provenienza. Il travestimento dell’artista, così come a mediazione del mezzo fotografico si accentuano divenendo a un tratto speculari e proprio nel momento in cui emerge una precisa tensione dialettica. Giocando sul paradosso proprio della fotografia, l’artista è sia il fotografo che il soggetto fotografato che, nel doppio ruolo crea un corto circuito interno al rapporto tra “operator” e “spectrum”. Claude Cahun realizza autoritratti nei quali il corpo e il viso dell’artista assumono sembianze di figure femminili del passato, impiegando maschere e costumi mitologici recuperati da abiti di scena teatrali, e tableaux fotografici in cui sperimenta l’azzeramento di ogni formalismo. La libertà è conquistata. Ecco che il desiderio di un “nomadismo identitario” orienta l’artista verso scelte in cui l’elemento psicologico diviene febbrile come un deliberato esercizio narcisistico, un lucido individualismo si fonde a scenari mitici o a contesti quotidiani dove l’elemento estraniante è lo stesso corpo di Cahun, trasmutato di volta in volta in identità aliene da sé: l’androgino polimorfismo si scontra con i travestimenti più stravaganti (ancora una volta presi in prestito soprattutto dall’iconografia teatrale): vampira, ginnasta, zingara, indossatrice, angelo, femme fatale, tutte icone di riferimento sottratte temporaneamente ai contesti culturali più disparati. Donna libera, artista libera, due condizioni che Claude Cahun ha saputo rivendicare a dispetto di una società maschilista (oggi non credo che sarebbe molto diverso) e che attraverso il suo lavoro, la sua vita, la sua testimonianza lascia una fortissima eredità nel mondo della fotografia. Il surrealismo la proiettò alla scoperta del suo mondo interiore, ma l’eredità lasciata da Claude Cahun è l’invito a andare oltre i movimenti, le correnti artistiche e a tenersi distanti da quelle categorie da lei così detestate. Molta della fotografia al femminile nasce da lei, molta della fotografia che mette al centro l’espressione corporea della diversità nasce da lei. Ed è doveroso che le si renda omaggio.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

foto Claude Cahun 

 

www.claudecahun.org

We are all looking for ourselves. Now as in the past, to demonstrate that the main hope of harmony in our intimate lies in the plurality of our identities. Since they exist, they intertwine with each other and are not only refractory to each definition, but oppose drastic divisions along boundary lines that no one can resist. Feeling comfortable in the skin we live in is undeniably the most glorious of liberations. This is the story of Claude Cahun (1894-1972) the woman who wanted to make herself a work of art. Born Lucy Renée Mathilde Schwob, from a family of intellectuals and artists, Claude Cahun (whom she herself will never define a pseudonym, as the name that best describes it), claims on her own skin the right to "neutrality", a feverish condition that it has in itself the equidistance of freedom, the destruction of labels on the altar of conformism. Today, according to the principles of politically correct, we would be led to call it "gender fluid", but in the end this too is a label that Claude Cahun would have refused, because any definition serves only those who use it: very often it is with words that build cages. And if you are young, a woman, a lesbian, a Jew and you live in France during the Dreyfus affair, and therefore exposed to continuous anti-Semitic attacks, you just have to expatriate and wait for the spirits to return to reasonableness. Back from Britain, his father took a new wife. Never could a greater gift be given to her, because that wedding led them to the eyes and then straight into the heart like a sword, the stepmother's daughter, Suzanne Malherbe. It was love at first sight, the two young women fell in love to never leave each other again. Claude breathes surrealism. Her friends are Breton, Tzara, Dalì, Ernst, Man Ray, Bataille and Henri Michaux, to whom he will dedicate a portrait. These are the years of conscious ambiguity, of "camouflage", of the experiments alongside the specific photographic one, laying the foundations for a debate that lasts today, that is, the transcendence of the medium in favor of plural expressions. Expressions that, however, even in the artistic avant-gardes of the twentieth century were innervated by a male chauvinism that subjected the artists to a secondary if not irrelevant role. But it is certainly not the conformism of the anti-conformists to stop it. In Claude Cahun's photographs, the image migrates into the simulated space of dreams, desires and ideals, introducing a robust quantity of fiction into a photograph constructed realistically. The photographic image is therefore suspended between reality and unreality, leading to those who observe it visual references of another origin. The disguise of the artist, as well as through mediation of the photographic medium, are accentuated becoming suddenly specular and precisely when a precise dialectical tension emerges. Playing on the paradox of photography, the artist is both the photographer and the photographed subject who, in the double role, creates an internal short circuit in the relationship between "operator" and "spectrum". Claude Cahun creates self-portraits in which the artist's body and face take on the appearance of female figures of the past, using mythological masks and costumes recovered from theatrical stage clothes, and photographic tableaux in which he experiences the zeroing of any formalism. Freedom is conquered. Here the desire for an "identity nomadism" directs the artist towards choices in which the psychological element becomes feverish as a deliberate narcissistic exercise, a lucid individualism merges with mythical scenarios or daily contexts where the alienating element is the same body of Cahun, transmuted from time to time into alien identity by itself: the androgynous polymorphism collides with the most extravagant disguises (once again borrowed especially from theatrical iconography): vampire, gymnast, gypsy, mannequin, angel, femme fatal, all icons of reference temporarily removed from the most diverse cultural contexts. Free woman, free artist, two conditions that Claude Cahun has been able to claim in spite of a male-dominated society (today I don't think it would be very different) and that through his work, his life, his testimony leaves a very strong legacy in the world of photography. Surrealism projected her to discover her inner world, but the legacy left by Claude Cahun is the invitation to go beyond the movements, the artistic currents and to keep away from those categories she so detested. Much of female photography comes from her, much of photography that focuses on the bodily expression of diversity comes from her. That’s way we must to pay tribute to her.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Claude Cahun 

 

www.claudecahun.org

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