FOTOTECA SIRACUSANA
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SCRIPTPHOTOGRAPHY
Michael ACKERMAN (USA)
MICHAEL ACKERMAN
Osservando le immagini di Michael Ackerman siamo trasportati in un universo inquietante, nel quale possiamo soltanto raccogliere dei frammenti di una realtà scomposta, appena accennata, come colpi veloci sulla tavolozza di un pittore che ha fretta di raccontarci cosa vede. La sua tecnica è funzionale alla narrazione di un reale che cela anziché svelare, che blandisce la nostra attenzione e insieme conduce a interrogativi che inquietano. Tutto è sfuocato (“blurred”, se volete, o “bokeh”, come va di moda adesso): lo sono gli sfondi – che isolano enigmaticamente i soggetti in primo piano –, lo sono i paesaggi – che ci consegnano realtà urbane assopite e campi misteriosi – lo sono, più di tutto, i soggetti. Atmosfere circonfuse di oscurità, come ha detto qualcuno “le fotografie di Michael Ackerman sono punti interrogativi avvolti in un mistero”; ma in un mistero esistenziale, quasi volessero dirci che c’è una realtà invisibile che si articola per essere interpretata. Uomini colti nell’angoscia di una solitudine spessa come una coltre e che l’efficacia dello sfuocato restituisce magistralmente lo “spessore” di un’atmosfera densa come un coagulo dell’anima. Ansietà. Stordimento. Paura. Le fotografie di Michael Ackerman ne sono attraversate come un lampo oscuro, secche come saette cui manca il rombo del tuono. C’è solitudine, una cupa sensazione di immobilità che il sapientissimo “mosso” contribuisce a rendere statica come un alito di vento bloccato da una brezza ghiacciante. C’è dolore, ma non compiacimento. C’è passione, ma non elegia. C’è pathos, ma non le grida. Eppure nel “rumore” delle fotografie avvertiamo il calore di una partecipazione attiva, segno che Ackerman ama ciò che vede e lo ama a tal punto da inventarsi una personale grammatica delle emozioni (si vedano le immagini degli abbracci, nelle quali c’è un fondo di pietà compassionevole così bene espresso da coglierne il disagio), garantendoci una rilettura delle espressioni emotive, svelandoci una nuova decodifica delle sottotracce di un inconscio che sgomita per affiorare.
E tutto declina nel vasto mare della verità, dell’autenticità, a cui non sono gli occhi a partecipare al gioco della decifrazione ma la mente. Ma le immagini ci appaiono poi per quello che sono in realtà, delle splendide composizioni in cui lo “sporco” del bianco e nero è potente e drammatico come dev’essere l’inchiostro di un racconto forte, che colpisce.
Michael Ackerman appartiene alla categoria dei coraggiosi della fotografia (lista nella quale appare in cima il francese D’Agata), perché solo il coraggio dà la spinta a stabilirsi nella vertigine di una fotografia “interpretativa” nella quale la realtà non è altro che lo specchio di un’irrealtà elevata al rango di protagonista. E a noi, osservando i lavori di Michael Ackerman, non resta che addentrarsi nel suo mondo. Niente paura: ci penserà lui stesso a tirarci fuori dal labirinto visivo che ha costruito per noi.
Giuseppe Cicozzetti
foto Michael Ackerman
Looking at the images of Michael Ackerman we are transported into a disquieting universe, in which we can only gather fragments of a sprawling reality, barely hinted at, like quick strokes of a painter’ palette who is in a hurry to tell us what he sees.
His technique is functional to the narration of a reality that conceals rather than unveils, which coaxes our attention and together leads to questions that are disturbing. Everything is blurred ("blurred", if you want, or "bokeh", as some say now): the backgrounds - which enigmatically isolate the subjects in the foreground - are the landscapes - that deliver us dormant urban realities and mysterious fields - they are, more than anything, the subjects.
Atmospheres surrounded by darkness, as someone said "the photographs of Michael Ackerman are question marks wrapped in mystery"; but in an existential mystery, they almost wanted to tell us that there is an invisible reality that is articulated to be interpreted. Men caught in the anguish of a loneliness as thick as a blanket and that the effectiveness of the blurry magistrally returns the "thickness" of a dense atmosphere like a coagulum of soul.
Anxiety. Stun. Fear. The Michael Ackerman’s photographs are crossed by them like a dark flash, as dry as lightning bursts with the rumble of thunder. There’s solitude, a grim feeling of immobility that the wise "blur" helps to make it static as a breath of wind stuck in an icy breeze.
There’s pain, but not complacency. There’s passion, but not elegy. There’s pathos, but it doesn’t cry out. Yet in the "noise" of the photographs we feel the warmth of an active participation, a sign that Ackerman loves what he sees and loves it so much that he invented a personal grammar of emotions (see the images of hugs, in which there is a background compassionate piety so well expressed to grasp the discomfort), guaranteeing us a rereading of emotional expressions, revealing a new decoding of subplots of an unconscious that agitate to surfacing.
And everything declines in the wide sea of truth, of authenticity, to which the eyes aren’t the ones to participate in the game of decryption but the mind. But the images appear to us then for what they are in reality, beautiful compositions in which the "rumor" of black and white is powerful and dramatic as it must be the ink of a strong, striking story.
Michael Ackerman belongs to the brave category of photography (a list in which the French D'Agata appears at the top), because only courage gives the impetus to settle in the vertigo of an "interpretive" photograph in which reality is nothing but the mirror of a high unreality to the rank of protagonist. And to us, observing the work of Michael Ackerman, we can only go into his world. Don’t worry: he will take care of himself to get us out of the visual labyrinth he has built for us.
Giuseppe Cicozzetti
ph. Michael Ackerman