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CLAUDIO  RIZZINI                                                               (Italia) 

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CLAUDIO RIZZINI

 

Ci hanno raccontato che lo Stato è impotente, che non ci difende, che è incapace di assicurare un malvivente alla giustizia e per questo è meglio armarsi. Una narrazione buona ai fini elettorali, irrobustita dai media conservatori, ci ha martellati dalle pagine dei giornali fino a sera raccontando con puntiglio notarile la cronaca delle aggressioni, dei furti nelle case. Ci hanno raccontato che la “percezione del pericolo” è un dato assai più importante del pericolo stesso (i furti nelle abitazioni sono in calo, secondo gli stessi dati del Viminale), chiedendo, ottenendola, una legge che allargasse la detenzione d’armi per la difesa abitativa. Ci hanno instillato la paura. E ci sono riusciti. Ci hanno detto di armarci, ma molti si sono “armàti di paura”. Nel bellissimo reportage di Claudio Rizzini, che io definirei necessario, notiamo come la paura d’essere derubati non sia soltanto una prerogativa delle classi più abbienti, ma che la stessa divampi presso le classi sociali meno garantite, le più esposte al contatto con l’immigrazione, origine, secondo qualcuno, d’ogni male. “Armàti di paura” indaga proprio in questa direzione per segnalare come le persone cerchino una rassicurazione nelle armi, coltivando l’impressione che le istituzioni non facciano il loro dovere. Ma da un punto di vista singolare. “Armàti di paura” infatti oltre a mostrare scene domestiche, nelle quali ci accorgiamo di persone che esibiscono le loro armi con una fierezza che atterrisce, vuole descrivere il clima psicologico dei possessori che, pare, non attendessero altro che armarsi. E chi ha un’arma prima o dopo spara. Lo Stato non ci difende? Lo facciamo da soli. E pazienza se è stato annullato il principio di legittima difesa proporzionata al pericolo: un criminale è un criminale. Claudio Rizzini deve aver provato il nostro stesso senso di sgomento e le sue fotografie sono più esplicite di ogni trattato sociologico sulla materia, perché vedere una coppia di anziani indugiare davanti la vetrina di un’armeria, una donna incinta “difendere” il nascituro con un fucile poggiato sul tavolo, chi tronfio si atteggia a pistolero significa che in un’arma vede un’estensione non già della propria sicurezza ma di una forza appena acquisita; mentre noi, sia detto con rispetto, notiamo l’incombere di una solitudine che si arrota su se stessa. Ho detto di “Armàti di paura” come sia un reportage necessario. Lo ribadisco proprio perché indugia nelle motivazioni, ognuna apparentemente diversa, ma che confluiscono in un tema molto più grande e che ruota intorno a una domanda: che valore ha oggi, alla luce della propaganda, il valore della vita? C’è una violenza primigenia, seminale, nelle parole della politica. Le parole d’ordine hanno sostituito la riflessione e l’approfondimento, mentre espressioni sprezzanti, risolute, preparavano il campo a quella che definisco una deriva sociale, un deliberato deragliamento della civile convivenza e del rispetto delle leggi. In questa direzione la vita d’un uomo, anche se è un criminale, vale molto poco. Anzi, niente se è straniero. Intanto stiamo diventando noi stessi stranieri. Non ci riconosciamo più. Siamo altro, al centro di una mutazione sociale, di una “americanizzazione” che dimentica le vittime. Siamo cambiati. Forse eravamo pronti a farlo, ma siamo cambiati: ci hanno instillato la paura. E ci sono riusciti.

Giuseppe Cicozzetti

da “Armàti di paura”

foto Claudio Rizzini

http://www.claudiorizzini.it/

They told us that the State is powerless, that it doesn’t defend us, that it’s incapable of ensuring justice to a criminal and for this reason it is better to arm ourselves. A narrative good for electoral purposes, strengthened by the conservative media, has hammered us from the pages of the newspapers until evening telling with notarial stubborn the chronicle of aggressions, of thefts in houses.

They told us that the "perception of danger" is a much more important fact than the danger itself (theft in homes are falling, according to the same data as the Interior Ministry), asking for a law to extend the possession of arms for housing defense. They have instilled fear in us.

And they made it. We were told to arm ourselves, but many were "armed with fear". In the beautiful report by Claudio Rizzini, which I would define as necessary, we note that the fear of being robbed is not only a prerogative of the wealthier classes, but that the same spreads among the less guaranteed social classes, the ones most exposed to contact with the immigration, origin, according to some, of all evil.

"Armed with fear" investigates precisely in this direction to signal how people seek reassurance in arms, cultivating the impression that institutions don’t do their duty. But from a singular point of view. "Armed with fear" in fact, in addition to showing domestic scenes, in which we notice people showing off their weapons with a terrifying pride, wants to describe the psychological climate of the owners who, apparently, did not wait for anything but arm themselves.

And who has a weapon before or after shoots. Does the State not defend us? We do it alone. And who cares if the principle of legitimate defense proportionate to the danger has been canceled: a criminal is a criminal. Claudio Rizzini must have experienced our own sense of dismay and his photographs are more explicit than any sociological treatise on the subject, because to see an elderly couple lingering in front of the window of an armory, a pregnant woman "defending" the unborn child with a shotgun resting on the table, the puffy person poses as a gunman means that in a weapon he sees an extension not of his own security but of a newly acquired force;

while we, with respect, say, we notice the looming of a solitude that clings to itself. I said of "Armed with fear" as a necessary report. I reiterate it precisely because it lingers in the motivations, each apparently different, but which merge into a much larger theme that revolves around a question: what does the value of life have today, in terms of propaganda?

There is a primitive, seminal violence in the words of politics. The slogans replaced reflection and deepening, while contemptuous, resolute expressions prepared the field for what I call a social drift, a deliberate derailment of civil coexistence and respect for the laws. In this direction the life of a man, even if he is a criminal, is worth very little.

Indeed, nothing if he is a foreigner. Meanwhile we are becoming foreigners ourselves. We no longer recognize ourselves. We are another, at the center of a social mutation, of an "Americanization" that forgets the victims. We have changed. Maybe we were ready to do it, but we changed: they instilled fear in us. And they made it.

Giuseppe Cicozzetti

from “Armed with fear”

ph. Claudio Rizzini

http://www.claudiorizzini.it/

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