FOTOTECA SIRACUSANA
PHOTOGALLERY - FOTOGRAFIA VINTAGE - BIBLIOTECA TEMATICA - CAMERA OSCURA B&W - DIDATTICA
Giuseppe Cicozzetti
Pippo Iacono:
COSTRUTTORE DI MEMORIE
Mission
Si dice, e noi siamo d’accordo, che una fotografia una volta scattata non esaurisca il suo carico testimoniale e che la stessa cresca insieme a noi. Se ad esempio prendiamo una vecchia fotografia di famiglia, la meraviglia a cui ci chiama non sta solo nel notare come siamo cambiati, quanto eravamo più giovani e più in forma di adesso, ma come essa abbia il potere – un potere straordinario in pochi centimetri quadrati – di scatenare la memoria costringendoci a ricordare non solo i nomi, i volti delle persone ritratte ma anche, e forse più, lo spirito di quel tempo. La vera vocazione di una fotografia è quella di finire nell’album di famiglia, in quel contesto cioè dove coagulano memoria e identità. In questo senso si può affermare che fotografia e memoria sono sinonimi o, quantomeno, due rispettosi dirimpettai che per esistere hanno bisogno l’una dell’altra. La fotografia, al netto di ogni altra definizione ontologica, trattiene il ricordo di quanto ha avuto dinanzi a sé. Questa è primariamente la sua funzione. Barthes ci avvertiva che la fotografia ci dice non solo che “è stato”, ma soprattutto che quello che è stato “non c’è più”.Allontanandoci dalle luttuose parole del filosofo, che in ogni caso ci appaiono come vere e ci restituiscono in pieno la vocazione a trattenere un tempo, la fotografia è soprattutto un’esperienza personale che si rivaluta nel tentativo di imbastire con le esperienze collettive un’interazione condivisa. La fotografia pertanto è memoria individuale e collettiva. Queste due componenti – l’individuo e il collettivo – sono alla base della costruzione dell’identità.
E l’identità va mantenuta e fermata a memoria futura. La prova – per tornare a Barthes – è nelle immagini funerarie. Accanto ai nomi dei cari scomparsi, assieme alle virtù di quando erano in vita, campeggia un’immagine che i soli dati anagrafici non basterebbero a rinvigorire la memoria. Sentiamo la necessità di allontanare l’oblio e una fotografia è lì a ricordarci come una prova schiacciante che un tempo il nostro caro che ora non c’è più, un tempo c’è stato.
La fotografia dunque contro l’apparire dell’oblio. Abbiamo detto che ogni fotografia cresce con noi e si risignifica nel tempo. Può, per questo, una fotografia significare il senso del tempo proprio quando il tempo è ancora in divenire? È il grande tema della fotografia documentaria. Perché la cronaca diventi storia ha bisogno dello scrutinio del tempo, che il suo senso decanti nel sentire comune e noi sappiamo con certezza che la storia – secondo il filosofo Galimberti – è un tempo fornito di senso.

Qual è allora il senso del tempo che innerva i segni contenuti in una buona fotografia? Sono esattamente quelli in cui ognuno si riconosce, e non importa se gli osservatori coglieranno nella fotografia segni diversi: la fotografia è come uno specchio, riflette la nostra immagine davanti alle domande che ci pone. E ognuna sarà differente a seconda della nostra provenienza, formazione, sensibilità.
È il tempo allora a costruire memorie, non i ricordi, in cui è contenuta l’inevitabile fallacia di una rivalutazione personale e, talvolta, poco attinente alla realtà. Il tempo ci indica come siamo stati, chi siamo stati e, soprattutto chi siamo ora. Questo è un fatto. A proposito di fatti, faccio una piccola digressione in un fenomeno contemporaneo: la cancel culture, cioè il tentativo di riscrivere la storia semplicemente ignorando il passato, abbattendo le statue di personaggi famosi ma discussi e di molto altro avvenuto nel corso della storia che valutiamo inforcando gli occhiali della contemporaneità. La fotografia – almeno momentaneamente – ne è stata esclusa. Le ragioni sono molteplici, in primis ci metterei la sua giovane età (due secoli sono un’inezia in una prospettiva storica); poi perché la fotografia non è la celebrazione di un “fatto”, ma è la sua testimonianza, di qualcosa che è accaduto e che pertanto nessuno può contestare.
Abbiamo detto che è il vero costruttore di memorie è il tempo. Ma per uscire da definizioni che se incomplete apparirebbero fumose, allora sarà meglio specificare che è grazie alla costante attività dei fotografi se oggi disponiamo di un patrimonio condiviso di visioni. C’è da operare una necessaria premessa, e chiedersi qual è stato il ruolo dei fotografi al tempo in cui, come si dice, la fotografia non era un affare “democratico”, laddove con lo stesso termine si spiega che l’accesso al mezzo tecnico non era a disposizione di tutti. E, successivamente qual era il rapporto tra fotografo e i clienti che si recavano in uno studio fotografico per un ritratto. Già solo con queste due premesse si potrebbe tracciare una breve sociologia della fotografia, e di come siano cambiati i costumi, le funzioni e, in ultimo il rapporto di ognuno di noi con la fotografia.
Almeno fino alla metà degli anni ’50, prima cioè dell’accessibilità a prezzi contenuti delle fotocamere, i fotografi di studio erano assai lontani dal pensarsi artisti. Il loro mestiere era equiparabile a quello di qualsiasi artigiano le cui vetrine di un negozio o di un laboratorio si affacciavano sulle vie o sulle piazze delle città. Non artisti, appunto, ma artigiani dell’immagine (la qualifica di “artista” – molto spesso si tratta di un merito autoassegnato – accanto al sostantivo fotografo arriverà anni dopo, finendo per confonderne il profilo), che dietro un compenso spesso modesto proiettavano i clienti nell’immortalità. Infatti chiunque avesse avuto voglia di vedere la propria immagine, per averla con sé o spedirla ai parenti lontani altro non doveva fare che entrare in uno studio fotografico e mettersi in posa davanti a un fondale.


Al resto pensava il fotografo, il quale attraverso lo scatto forniva al soggetto un certificato di esistenza in vita più validante di qualsiasi altro documento d’identità.
Negli anni del boom economico, il fotografo, solleticato da una borghesia desiderosa di attestare il consolidato benessere economico, è chiamato a testimoniare il passaggio degli eventi privati. Il fotografo esce dallo studio per scattare le immagini di matrimoni, comunioni, cresime che irrobustiranno gli album di famiglia concorrendo alla creazione di una memoria tascabile, tramandabile non solo in ambito famigliare. Quelle fotografie, frettolosamente definite “vernacolari”, hanno avuto il merito di creare una memoria sociale, un album di ricordi che riguarda l’intera collettività. La prova è il grado di commozione che ci assale ogni volta che guardiamo quelle fotografie; e non importa se fanno parte o non parte della nostra storia famigliare perché sono storie universali, sovrapponibili alla nostra. Spesso sono ben custodite, gelosamente al loro posto dentro un album, spesso ancora queste fotografie le ritroviamo tra le bancarelle dei mercatini di vecchie cose. Ma cosa guardiamo dunque quando abbiamo tra le mani una vecchia fotografia, il ritratto di uno sconosciuto gruppo di famiglia, il volto anonimo di donne e uomini?
Da cosa siamo colpiti che ci fa acquistare e portare nella nostra collezione i ritratti di un’umanità destinata a restare anonima perché immancabilmente priva di qualunque relazione tra noi e loro? Mistero. Spesso è la buona fattura di talune fotografie, quelle fatte in studio da un professionista, con tanto di fondali esotici e misterici, altre volte sono i ritratti di presentazione ma in ogni caso, pur apprezzandone le qualità tecniche, quelle fotografie senza una precisa collocazione biografica sono immagini mute. Eppure hanno il potere di sedurci. Così subito, come una condizione stabilita al momento dello scorrere delle immagini, siamo trasportati in un altrove temporale che spesso è coincidente con il nostro, mentre altre volte è più in là. E guardando quei volti, quelle scene, quelle pose siamo naturalmente obbligati a riscrivere al momento una biografia, come se i soggetti delle foto, una volta smarriti dopo essere stati espulsi dagli album di famiglia, chiedessero il nostro aiuto e disposti vedersene attribuita un’altra pur di tornare a vivere. E davanti alle fotografie più vecchie presto ci assale una consapevolezza, amara, inesorabile: in quelle fotografie torna una tematica già affrontata, quella di un tempo che c’è stato e che non ci sarà più. A noi, già sulle bancarelle, non resta che la commozione per un patrimonio fotografico inesorabilmente frantumato, una diaspora visuale che chiede, se non altro, che a quei volti senza nome sia attribuita una biografia. Solo così possono tornare a vivere, perché le fotografie non sono semplicemente oggetti.
Our
Story
Poi, la città. Gli storici della fotografia asseriscono che le nuove generazioni guarderanno le fotografie vintage con il medesimo stupore con cui noi, che siamo avanti con gli anni, guardiamo le fotografie dei vedutisti ottocenteschi, immagini che guardate oggi tracciano inevitabilmente la storia dell’evoluzione urbanistica delle città. Queste fotografie, che peraltro compongono la gran parte dell’archivio di ogni fotografo, sono da considerarsi una vera preziosità non soltanto sotto il profilo documentativo ma perché, una volta osservate alla luce del puro piacere dello scatto, in quanto prive di committenza, rappresentano la vera vocazione testimoniale del fotografo. Qui, proprio in queste immagini, l’osservatore è chiamato a stabilire un ponte temporale tra ciò che la città era e quello che è adesso. Spesso, allo scorrere delle fotografie, più che dagli accorgimenti tecnici, dalla composizione, dallo scorcio inquadrato siamo aggrediti dalla nostalgia. La ragione è semplice, e non è una retrotopia a buon mercato che ci indurrà a convincerci che il passato che abbiamo lasciato alle spalle ora si ripropone come il tempo d’un Arcadia perduta. Al contrario, in quelle fotografie, da cui fuoriesce una disillusione unita a una sottile malinconia, ravvediamo come ogni scommessa con il progresso sia andata perduta inesorabilmente. Il fotografo è un flâneur, un cacciatore di immagini, un passeggero del tempo. Egli fotografa la sua contemporaneità ma non sa ancora che quegli scatti prodotti per puro piacere da lì a qualche anno cresceranno per riunirsi, quasi autonomamente, in un corpus criticamente organizzato e da cui è possibile tracciare una traiettoria, un ponte tra passato e presente; perché, come accennato all’inizio, le fotografie crescono con noi ogni volta che tornano alla vista. Scendere nello specifico dell’attività di un fotografo di studio è come inoltrarsi in un territorio ricco di sorprese. Ognuno di loro ha una sua sensibilità, una storia personale, un gusto affinato nel tempo, un’attitudine che ne differenzia il percorso. Tuttavia, al netto delle differenze, c’è come un filo che li accomuna tutti. Quel filo è un mestiere imparato a bottega, giorno dopo giorno, con la costanza e l’applicazione di un artigiano. Oggi è molto diverso. La fotografia si insegna nelle Università, ci sono ottime scuole dove apprendere tecniche e affinare il talento, esistono molti corsi di fotografia più o meno accreditati, si tengono workshop, laboratori e sul territorio non si contano i circoli di divulgazione fotografica. Ma al tempo in cui Pippo Iacono iniziava a lavorare questa didattica era inesistente, la fotografia si imparava scattando e poi dentro in camera oscura, a celebrare la “figlia nata dalla luce e un veleno”, per citare Boito.Pippo Iacono è figlio di una città sorprendente. Sciascia ne parlava così: “Siracusa si fa visionaria, si dissimula e si nega”. In queste tre parole è contenuto il destino della città, ma a guardare alla filigrana del significato esse coincidono perfettamente con la vocazione stessa della fotografia, intercettando la sua missione. Fuori da ogni retorica, chi nasce a Siracusa è accolto da un carico, quello di una storia millenaria, che inevitabilmente segnerà il suo destino. La storia, con il suo carico testimoniale, incombe ovunque, la bellezza stana l’occhio del viaggiatore, l’arte parla greco, latino, bizantino e poi le lingue europee degli imperi. Di questo crogiolo multiforme e colorato, d’accenti levantini e una luce che coglie in flagrante, è impossibile restare indifferenti o, peggio, muti.

Siracusa è una città che ama farsi raccontare. Così, mentre uno scrittore è impegnato a trovare le parole più efficaci, le migliori che possano descrivere “questa vecchia signora sul cui volto è ancora possibile scorgere un ultimo, intramontabile bagliore di lucente bellezza” (Consolo), i fotografi non smetteranno mai di puntare l’obiettivo, ammirati, come uno sguardo donato all’amata. Il primo studio di Iacono apre verso la fine degli anni ’50, in Ortigia. Più precisamente in via delle Maestranze, una via nobiliare su cui affacciano i più bei palazzi aristocratici della città. In quegli anni, e almeno per un ventennio a seguire, Ortigia era sinonimo di Siracusa; anzi, con l’eccezione della Borgata, un nucleo che nel secondo dopoguerra si è espanso per accogliere la mano d’opera delle industrie chimiche, Ortigia era Siracusa. Qui, lo studio resterà almeno fino al finire degli anni ’60. Poi, quasi a obbedire alla vocazione errante che abita ogni siciliano, lo studio Iacono aprirà a nord della Borgata, in piazza della Vittoria, al limite della zona di culto dedicata alla Madonnina delle Lacrime, anticipando involontariamente il processo di gentrificazione che interesserà Ortigia. Poco tempo dopo un altro trasloco, questa volta definitivo, in viale Luigi Cadorna. Il poderoso archivio trova la sua ultima dimora.
Pippo Iacono ha incarnato la figura del fotografo artigiano – il termine “artigiano” non appaia una diminutio, nella sua accezione più nobile rappresenta la vera natura del mestiere –, del fotografo camminatore, del fotografo flâneur sempre pronto a lasciare che il suo sguardo indugiasse sulla sua città. Il vedutismo urbano, cioè quel particolare corpus della sua attività, è stato una naturale evoluzione del vedutismo romantico dei fotografi a cavallo tra ‘800 e ‘900. Con qualche differenza. I fotografi del passato fotografavano i luoghi della Sicilia, le città, spingendo sulla nota seduttiva, pittoresca, meglio se con qualche particolare stranezza verista. Le fotografie più che alla costruzione di un archivio storico della memoria erano destinate a essere commerciate, vendute a un pubblico attratto dall’esotica stravaganza che fino a quel momento ignorava l’esistenza di questa o quell’altra località. Il puro piacere dello scatto, la fotografia fatta per il proprio archivio e magari, una volta sviluppata, non destinata a vedere la luce, li ritroviamo più di mezzo secolo più tardi, con i pionieri della fotografia moderna cui Pippo Iacono appartiene di diritto.
Pippo Iacono, per motivi anagrafici, si trova a operare in un contesto urbano assai diverso, in piena trasformazione. Nelle fotografie è assente il desiderio di stupire che assalirà il lavoro di molti fotografi a venire. C’è piuttosto il distacco necessario del reporter, della registrazione priva di giudizi. La storia, del resto, ama l’imparzialità. Così, fotografia dopo fotografia è il tempo a decretare la portata documentaria delle sue immagini, non il fotografo che del tempo è soltanto un interprete. Le trasformazioni urbane, i costumi della gente, i vezzi del nuovo consumo, una città che cresce e diventa onnivora, attraverso la fotografia hanno il sigillo del fatto compiuto sotto i nostri occhi. Le poche automobili, le strade pressoché deserte e infine il silenzio che affiora dalle immagini hanno ceduto il passo a un progresso che ci ha trasformati in qualcos’altro. Quella città non esiste più. La città di Pippo Iacono non esiste più. A lui va il merito d’averla raccontata, come una specie di cantastorie visivo. E mentre ognuno di noi andrà alla ricerca di un particolare ricordo, un dettaglio che rimandi a un mondo conosciuto e dimenticato o, per le nuove generazioni sconosciuto e ritrovato, non possiamo, dopo esserci consegnati volontariamente alla commozione, che provare a preservare quella memoria, una memoria collettiva che ha tutto il sapore dell’identità.
