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SCRIPTPHOTOGRAPHY

Joel Peter WITKIN                                                         (USA) 

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JOEL-PETER WITKIN

Ha detto Machado: “Dove non esiste la nozione di sacro, nulla è blasfemo”. Tenetevi forte, le immagini che vedrete appartengono a un grande della fotografia, Joel-Peter Witkin e nelle sue fotografie si respira una libertà creativa difficile da individuare in altri colleghi.

Dimenticate le nozioni del Bello a cui siamo abituati, il lavoro di Witkin riformula ogni parametro stabilmente piegato alla ragionevolezza delle convenzioni. Lui stesso si fa convenzione e risponde solo al delirio creativo che lo attraversa come una febbre. Qualcuno storce il naso? Che si giri dall’altra parte: qui siamo di fronte a un genio che si interroga sulla caducità dell’essere umano, sulla metafora della sua trasformazione e tra i cui parametri non c’è spazio per nessuna sacralità: il corpo umano per Witkin ha più cose da raccontare se malformato, deteriorato, meglio se defunto.

Il suo lavoro è visionario. È oscuro. È un impianto teatrale che risponde ai dettami di un Barocco che dialoga con l’oscurità. Witkin non concede nulla. Sa, come lo sappiamo noi, che ognuno è destinato alla consunzione, ma per quanto possiamo tenere distante da noi l’idea della morte – dando vita a un dibattito che nelle intenzioni può solo allontanarne l’approssimarsi – essa è parte integrante del numero di giorni che chiamiamo vita; e Witkin sembra invece giocarci. Come dire “Tutto è vanità”, per riprendere le parole di Qohelet, la vita stessa è un episodio effimero, transitorio, che ciò che dura davvero è l’assenza, il non-esserci. La vita, la morte. Anche la fotografia ha a che fare con la morte. Ha detto Barthes che l’atto del fotografare è in realtà un tentativo di “congelamento” delle sembianze del reale, preservandole intatte anche dopo la morte della persona ritratta. E questo non genera che spettri. Noi invece gli “spettri” siamo invitati a vederli prima che la fotografia li generi, e qui sta la rivoluzione concettuale di Witkin, nella cui sfrontatezza ravvisiamo il tentativo (riuscito) di scardinare il linguaggio fotografico e l’assunto filosofico su cui poggia le basi. Con Witkin siamo distanti da tutto questo. Siamo nel mare agitato della percezione, nella tempesta semiologica delle immagini. E tutto con radici ben solide, piantate dritte nella storia dell’Arte del quattordicesimo e sedicesimo secolo, (si guardi l’interpretazione delle “Meninas di Diego Velázquez”), perché è in questi ambiti culturali che vanno collocati tanto i riferimenti giotteschi che botticelliani delle sue fotografie, con tanto di ascensioni, visioni mistiche, crocifissioni e il corpo senza vita di un uomo che rimanda al martirio di un santo della cristianità; mentre le nature morte “con testa d’uomo”, con arti umani, riducono la distanza tra l’uomo e le cose, sommandoli fatalmente alla complessità delle “cose già viventi”. Si diceva che nulla è sacro. Niente. E tutto narra di un mutamento avvenuto – e non necessariamente in meglio. Si osservi a questo proposito “Woman once a bird”. Si guardi la costrizione di un “costume” metallico che sacrifica il corpo femminile fino a martoriarlo e in più, quale simbolo di una drammatica mutazione, le profonde ferite sulla schiena, talmente simmetriche da lasciare immaginare che prima – non sappiamo quando – lì vi fossero impiantate delle ali.

In ultimo, forse la sua fotografia più famosa, certamente la più controversa, “The kiss”. Quello che noi immaginiamo siano due teste d’uomo, in realtà è una sola, sezionata e accostata in un bacio che sfida la morte e la sconfigge per consegnarsi alla vera eternità, concetto che pare sfuggire a una percezione fondata sul ciclo temporale degli accadimenti.

Blasfemia? No, è coraggio. Se l’arte rinuncia a stupire non è più arte, è ragioneria.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

foto Joel-Peter Witkin

https://joelpeterwitkin.com/

 

 

Machado said: "Where the notion of the sacred does not exist, nothing is blasphemous". Please, hold fast, the images you will see belong to a great photographer, Joel-Peter Witkin and in his photographs you can breathe a creative freedom that is difficult to identify in other colleagues.

Forget the notions of the beautiful we are used to, Witkin's work reformulates every parameter stably bent to the reasonableness of conventions. He himself becomes convention and responds only to the creative delirium that runs through him like a fever. Does anyone turn up their noses? Whether he turns the other way: here we are faced with a genius who wonders about the transience of the human being, about the metaphor of his transformation and among whose parameters there is no space for any sacredness: the human body for Witkin has more things to tell if malformed, deteriorated, better if deceased. His work is visionary. It's dark. It is a theatrical system that responds to the dictates of a Baroque that dialogues with darkness. Witkin concedes nothing. It knows, as we do, that everyone is doomed to consumption, but as far as we can keep the idea of death at a distance from us - giving life to a debate that in intentions can only distance its approach - it is an integral part of the number of days we call life; and Witkin seems to play with it instead. As if to say "All is vanity", to take up the words of Qohelet, life itself is an ephemeral, transitory episode, that what really lasts is the absence, the non-existence. Life, death. Even photography has to do with death. Barthes said that the act of photographing is actually an attempt to "freeze" the semblances of reality, preserving them intact even after the death of the person portrayed. And this only generates ghosts. We, on the other hand, are invited to see the "specters" before photography generates them, and here lies Witkin's conceptual revolution, in whose effrontery we recognize the (successful) attempt to undermine the photographic language and the philosophical assumption on which the foundations rest . With Witkin we are far from all this. We are in the agitated sea of perception, in the semiological storm of images. And all with very solid roots, planted straight in the history of art of the fourteenth and sixteenth centuries (see the interpretation of the "Meninas by Diego Velázquez"), because it is in these cultural fields that both Giotto's and Botticelli's references must be placed of his photographs, complete with ascents, mystical visions, crucifixions and the lifeless body of a man who refers to the martyrdom of a Christian saint; while the still lifes "with a man's head", with human limbs, reduce the distance between man and things, fatally adding them to the complexity of "things already living". It was said that nothing is sacred. Nothing. And everything tells of a change that has taken place – and not necessarily for the better. In this regard, observe “Woman once a bird”. Look at the constriction of a metal "costume" that sacrifices the female body to the point of martyring it and furthermore, as a symbol of a dramatic mutation, the deep wounds on the back, so symmetrical as to let one imagine that before - we don't know when - there were plant wings. Finally, perhaps the most famous photograph of him, certainly the most controversial, "The kiss". What we imagine to be two human heads is actually only one, dissected and brought together in a kiss that defies death and defeats it to deliver itself to true eternity, a concept that seems to escape a perception based on the temporal cycle of events.

Blasphemy? No, it's courage. If art gives up on astonishing, it’s no longer art, it’s accounting.

 

Giuseppe Cicozzetti

 

ph. Joel-Peter Witkin

https://joelpeterwitkin.com/

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